Oltre mille persone hanno partecipato alla presentazione del Rapporto ASviS 2019. Un’investitura che induce l’Alleanza a rafforzare il suo ruolo, anche per prepararci a cambiamenti “improvvisi e sconvolgenti”.
Un grande risultato e un grande impegno. Tre anni e mezzo fa, quando nacque l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, pochi potevano immaginare quel che è accaduto venerdì scorso: un pubblico da concerto, oltre mille persone, alla Sala Sinopoli del Parco della Musica a Roma, in occasione della presentazione del quarto Rapporto dell’ASviS; una grande attenzione politica, testimoniata dalla presenza del Capo dello Stato, dagli interventi di Roberto Fico, Roberto Gualtieri e Paolo Gentiloni, dalla partecipazione di molti altri esponenti politici e leader della società civile italiana.
E ora? Il presidente dell’ASviS Pierluigi Stefanini ha sottolineato il ruolo dell’Alleanza nella costruzione di una visione condivisa: la forza dell’ASviS è innanzitutto nei suoi gruppi di lavoro articolati per Obiettivo, ai quali partecipano oltre 600 esperti degli oltre 220 soggetti aderenti. Il portavoce Enrico Giovannini ha condensato il senso di questo lavoro in una serie di proposte. Come ha scritto Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera,
le raccomandazioni per migliorare le nostre posizioni sono numerose, alcune di semplice buon senso. Andrebbero tutte esaminate e, se possibile, accolte senza tanti indugi.
Tra le indicazioni di Giovannini ci sono 18 richieste al Governo. Innanzitutto, sei “azioni trasformative” che devono impegnare direttamente il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Tra queste, la richiesta dell’invio ai ministri di un atto di indirizzo che citi la loro responsabilità per il conseguimento degli SDGs e dei relativi Target (analogamente a quanto ha fatto la nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen con i suoi commissari) e il rafforzamento della “cabina di regia” istituita a Palazzo Chigi per coordinare le politiche miranti alla realizzazione dell’Agenda 2030.
Sono poi suggerite 12 “azioni sistemiche” che coinvolgono i ministri. Tra queste, la richiesta di “aggiornare e dettagliare con obiettivi quantificati, entro dicembre 2019, la precedente Strategia Nazionale” e di presentare a febbraio 2020 un Rapporto sullo stato di attuazione della Strategia stessa, comunicando all’Onu l’intenzione di presentare all’Hlpf del 2020 un aggiornamento della Voluntary National Review.
È dunque evidente che l’impegno derivante dal grande successo dell’ASviS è quello di usare questo consenso per stimolare il governo, la politica tutta e le forze economiche e sociali a muoversi più rapidamente sul percorso dello sviluppo sostenibile. Come l’anno scorso, l’Alleanza presenterà gli inizi del 2020 una analisi dettagliata della prossima Legge di bilancio in relazione agli Obiettivi dell’Agenda 2030. Nel prossimo anno potrebbero essere avviate azioni importanti, già delineate nel Rapporto 2019: l’avvio della procedura per inserire lo sviluppo sostenibile in Costituzione; la predisposizione di una legge annuale per lo sviluppo sostenibile per affrontare in ottica sistemica tutte le misure necessarie per attuare l’Agenda 2030; lo smantellamento graduale degli incentivi dannosi per l’ambiente, solo per citarne alcuni.
Allargando lo sguardo al panorama internazionale, è giusto chiedersi che cosa rimarrà della grande mobilitazione alla quale abbiamo assistito nell’ultima decade di settembre. Abbiamo già segnalato la settimana scorsa il grande interrogativo posto dall’Economist: quanto dovrà cambiare il nostro sistema economico per far fronte alle sfide della sostenibilità ambientale e sociale. Da registrare però che lo stesso giornale nel numero successivo è tornato sull’argomento con un articolo che segnala numerose iniziative importanti da parte del mondo delle imprese. Tra l’altro
un nuovo rapporto di Principles for responsible investment, un gruppo di investitori che gestisce 86mila miliardi di dollari, ha predetto che entro il 2025 assisteremo a politiche per il clima “abrupt and disruptive”, improvvise e sconvolgenti, man mano che le autorità si renderanno conto dell’urgenza della questione climatica.
Tra le iniziative segnalate dalla rivista inglese, l’impegno di 87 grandi imprese, compresa la Nestlé, ad arrivare a emissioni zero entro il 2050 e quello di Amazon ad affidare solo a veicoli elettrici le sue consegne entro il 2040. Molte altre imprese, nell’ambito della Science based targets initiative, si sono impegnate a ridurre le loro emissioni del 2,5% all’anno, mentre la Climate finance leadership initiative, promossa da Michael Bloomberg, incaricato speciale dell’Onu per il cambiamento climatico, ha riunito banche, gestori di fondi ed aziende dell’energia per indirizzare investimenti nelle energie pulite nei Paesi più poveri.
Non basta, se è vero, come scrive ancora l’Economist, che le imprese che si pongono degli obiettivi in materia climatica valgono il 14% della capitalizzazione mondiale delle borse, ma sono responsabili solo del 2% delle emissioni complessive di CO2. Tuttavia possono indicare un percorso. Una importante (e inaspettata) sottolineatura sul ruolo delle grandi imprese proviene anche da Desmond Tutu, l’88enne arcivescovo anglicano che è stato protagonista della lotta contro l’apartheid in Sudafrica. In un articolo sul Financial Times ha ricordato che
negli anni ’70 e ’80, uno degli strumenti più importanti che ci ha consentito di superare l’apartheid è stato il supporto delle grandi corporation globali che hanno guidato la tendenza a disinvestire (in Sudafrica, ndr). L’apartheid divenne un nemico globale. Ora è il turno del cambiamento climatico.
Il quadro che si delinea è dunque che la politica sarà indotta ad accelerare gli interventi per il clima, man mano che la crisi si rivelerà in tutta la sua gravità, ma che le imprese possono prevenire questa svolta e anzi guidare le politiche di mitigazione e adattamento. Un ruolo importante in questo contesto è certamente quello svolto dai media, che in passato hanno affrontato i temi della sostenibilità con una certa distrazione, relegandoli alle pagine settoriali o seminando dubbi.
La Columbia Journalism Review, che da tempo ha avviato la battaglia per cambiare il linguaggio sulla crisi climatica, annuncia a new beginning for climate reporting e afferma che negli ultimi 30 anni
la risposta, specialmente negli Stati Uniti (ma non solo, ndr) è stata il silenzio o, peggio, il racconto fatto in modo sbagliato. I reporter e le loro organizzazioni hanno accantonato il tema considerandolo troppo tecnico, troppo politico o troppo deprimente. Stimolati dalle imprese produttrici di combustibili fossili e pressati dai loro stessi problemi economici, i media hanno spesso messo sullo stesso piano i punti di vista degli scienziati onesti e quelli dei portavoce pagati dalle imprese. La minimizzazione del disastro imminente è uno dei nostri grandi fallimenti giornalistici.
Il tema è caldo anche in Italia, come si è visto dal dibattito con i giornalisti, condotto da Giovannini, che ha concluso la presentazione del Rapporto. Ne è scaturita un’idea: promuovere una rete di giornalisti impegnati a ricercare insieme un nuovo linguaggio in materia di sostenibilità, in parallelo con quanto stanno facendo la Columbia Journalism Review, il Guardian e altri giornali. Dopo i Fridays for future dei giovani, i Saturdays for future dei consumatori, potrebbe nascere un movimento “Journalists for future”. Why not?
di Donato Speroni, Responsabile della Redazione dell’ASviS