Ogni anno, l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) fa il punto sulle prospettive del mercato, pubblicando il World energy outlook (Weo). Il volume contiene anche una proiezione sulla domanda complessiva di energia primaria (cioè quella che serve sia alla produzione di elettricità, sia agli altri usi), articolata per fonte. Il Weo 2019, diffuso il 13, presenta tre scenari: uno che rispecchia le current policies, cioè che cosa succederebbe se si continuasse con il business as usual; uno le stated policies, che cioè tiene conto delle misure già annunciate dai governi; infine uno, sustainable development, che indica gli obiettivi che si dovrebbero raggiungere per andare davvero verso una decarbonizzazione. La quota dei combustibili fossili, che attualmente soddisfa l’81% della domanda di energia primaria, nel 2040 scenderebbe al 78% con le current policies, al 74 % con le stated policies, mentre sarebbe del 58% nell’ipotesi sustainable development: ancora alta, ma se si considera il diverso mix delle emissioni (nel sustainable development scenario l’impiego del carbone, più inquinante scenderebbe di oltre il 60%, il petrolio del 32% mentre il consumo di gas rimarrebbe quasi uguale) l’effetto sulle emissioni di CO2 sarebbe enorme, passando dai 33,2 miliardi di tonnellate del 2018 a 15,8 miliardi nel 2040.
È interessante confrontare queste previsioni con quelle dello scorso anno. Dal 2017 al 2018 la quota dei fossili è rimasta all’81% sul totale dell’energia primaria, e anche l’effetto delle politiche annunciate al 2040 non si schioda dal 74%, segno che in sostanza nella mitigation della crisi climatica si è perso un altro anno.
Eppure qualcosa di importante potrebbe cambiare ben prima della metà del secolo, come ci ricorda una stimolante analisi dell’Economist.
“La quotazione dell’Aramco è il segnale che la fine del petrolio potrebbe avvicinarsi. Ma ci ricorda anche che il potenziale dell’oro nero di causare terremoti economici e politici non diminuirà nei prossimi decenni”.
Secondo il giornale inglese, la decisione di mettere sul mercato una (piccola) quota della società petrolifera saudita non risponde soltanto all’esigenza dei governanti di Riad di raccogliere fondi per diversificare la propria economia, ma segnala anche una diagnosi sulla “fine del petrolio”.
Il termine peak oil fu coniato nel 1956 dal geologo M. King Hubbert, per esprimere la preoccupazione che la produzione petrolifera fosse prossima al picco, a causa del progressivo esaurirsi delle riserve. Ma oggi se ne torna a parlare per la ragione opposta: una prospettiva di domanda calante.
Le preoccupazioni sulla catastrofe climatica potrebbero infatti accelerare il passaggio alle fonti energetiche rinnovabili ben al di là di quanto profetizza la Iea, tanto da far calare i consumi dagli attuali 95 milioni di barili/giorno a 40 milioni nel 2050. E c’è chi va oltre: il futurologo Raymond Kurzweil, nel suo libro “The singularity is nearer”, di prossima uscita, prevede un totale passaggio alle energie rinnovabili entro il 2030. Saremmo insomma alla vigilia di quei cambiamenti abrupt and disruptive, improvvisi e sconvolgenti, profetizzati da grandi finanzieri entro il 2025, che avevamo già segnalato. Si muove in questa direzione anche la lettera alla Stampa a firma della vicepresidente del Club di Roma Sandrine Dixson-Declève e del portavoce dell’ASviS Enrico Giovannini, nella quale si chiede che la Bei non finanzi più i progetti basati sulle energie fossili.
Poche imprese petrolifere resisteranno a questi cambiamenti, ma l’Aramco, il gigante petrolifero saudita, non teme di andare fuori mercato, perché i suoi costi di estrazione, per un greggio di ottima qualità, non superano i tre dollari al barile. Molti altri produttori potrebbero essere travolti dal calo dei prezzi, a cominciare dai petrolieri americani che impiegano le tecniche di fracking, antieconomiche sotto i 40 dollari al barile.
Le conseguenze economiche e politiche del ridimensionamento dell’industria petrolifera saranno enormi, innanzitutto perché si tratta di un settore con una capitalizzazione di 16mila miliardi di dollari e almeno 10 milioni di dipendenti, ma anche per i riflessi su numerosi Paesi. Secondo la Banca mondiale, ci sono 26 nazioni che dipendono dalle estrazioni di greggio per oltre il 5% del loro prodotto interno lordo.
I produttori che estraggono il greggio più caro e più sporco, compresi Algeria, Brasile, Canada, Nigeria e Venezuela, saranno costretti a chiudere gradualmente la loro produzione, con conseguenze dolorose e in alcuni casi devastanti.
Insomma, se il consumo dei combustibili fossili non calerà sensibilmente avremo gravi conseguenze sul clima. Se invece la rivoluzione verde sarà accelerata, potremo avere gravi conseguenze geopolitiche. Per gestire l’una e l’altra ipotesi il mondo avrebbe bisogno di rafforzare la governance internazionale, un’ipotesi che al momento appare lontana.
In ogni caso, l’Italia rischia di essere un vaso di coccio rispetto alle sfide del futuro. La “Relazione sullo stato della green economy” presentata il 6 a Ecomondo, espone una nuova metodologia di analisi, che aumenta fortemente la stima dell’impatto del cambiamento climatico sul nostro Paese, con il drammatico effetto di aumentare ulteriormente il divario tra il Nord e il Mezzogiorno. Un’ottima sintesi di questo studio è quella di Enrico Marro sul Sole 24Ore.
L’opinione pubblica è consapevole della gravità della situazione? Che cosa si può fare per indurla a reagire, nella convinzione che senza una effettiva mobilitazione, che non sia limitata agli studenti e ad alcuni settori della società civile, le misure varate dai politici saranno poco più che pannicelli caldi? Su questo tema l’ASviS ed Ecomondo hanno organizzato un incontro, nella grande fiera di Rimini, introdotto da una relazione di Nando Pagnoncelli, che ha presentato i risultati di recenti rilevazioni sulla percezione della sostenibilità. Nel complesso, la popolazione italiana vede un 20% attivamente impegnato per la sostenibilità, un 50% aperto a questi problemi, un 13% di scettici e un 17% di indifferenti. Meno diffusa l’informazione sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030: solo un 10% dice di conoscerli bene mentre un 31% “ne ha sentito parlare”. Possiamo supporre che senza i quasi quattro anni di lavoro dell’ASviS queste percentuali sarebbero ancora più basse.
Nel complesso, avverte Pagnoncelli, anche se
la consapevolezza della limitata disponibilità di risorse naturali induce a minimizzare il proprio impatto sull’ambiente, apportando cambiamenti alle proprie abitudini di consumo (…) l’etica ha una effettiva rilevanza per un limitato numero di persone e rischia di non essere sufficiente a garantire una conversione di massa.
Come passare da una generica sensibilità, alla politica e a un diverso modello di sviluppo? Se lo chiede anche Paolo Mazzanti sul sito InPiù, facendo proprio l’esempio di una società petrolifera:
“Ci sono investitori che proclamano una fede verde ma se poi ogni trimestre non porti i profitti ti tagliano la gola” ha detto, in un sussulto di verità, l’ad di Eni Descalzi. È un esempio della schizofrenia che viviamo sul clima: sull’onda delle manifestazioni giovanili chiediamo provvedimenti immediati contro il cambiamento climatico, ma poi pretendiamo provvedimenti per rimettere in moto la crescita, senza capire che la crescita attuale (Ilva compresa) è intrinsecamente inquinatrice e modificarla richiede tempo, pazienza e anche meno profitti. Uscire da questo dilemma non sarà facile.
Certamente per “uscire da questo dilemma” bisogna lavorare sui giovani, stimolarli a passare da una generica protesta a un impegno politico sulle soluzioni più efficaci per uno sviluppo sostenibile. Ma per far questo è anche necessario dare ai giovani un posto più rilevante e riconosciuto nella società. Non si stanca di ripeterlo Giovannini, che in una intervista alla Stampa ha dichiarato tra l’altro:
Da quanti anni un governo non è in grado di esprimere un vero piano per l’occupazione giovanile? Si discute sempre di disoccupazione dei giovani ma credo che le ultime misure adottate in questo senso furono quelle di “Garanzia Giovani” approvate dal nostro governo (il governo Letta di cui Giovannini faceva parte come ministro del lavoro, ndr) e poi attuate dal governo Renzi.
Ricordiamo a questo proposito che tra i 21 Obiettivi dell’Agenda 2030 da raggiungere entro il 2020, c’è (target 8.6):
Entro il 2020, ridurre sostanzialmente la percentuale di giovani disoccupati che non seguano un corso di studi o che non seguano corsi di formazione
cioè i cosiddetti Neet, not in education, employment or training. Il Rapporto ASviS 2019 (pag. 116) segnala che in questa direzione si è fatto ben poco.
Nonostante il leggero miglioramento degli ultimi anni, la situazione italiana rimane molto preoccupante ed è irrealistico sperare di conseguire una “sostanziale” riduzione del fenomeno. Infatti, tra il 2013 e il 2018 la percentuale è scesa dal 26%, al 23,4% e l’Italia continua ad essere il fanalino di coda dell’Unione europea, posizionandosi all’ultimo posto, ben distante dalla Grecia (19,5%), la Bulgaria (18,1%) e la Spagna (15,3%). In termini assoluti, i giovani Neet sono 2,1 milioni (con una incidenza molto forte nel Mezzogiorno, al punto che risiede in questa circo-scrizione più della metà dei giovani in tale condizione), mentre se si considerano anche gli young adults, cioè coloro che sono nella fascia di età 30-34 anni, il numero sale a circa 3,1 milioni.
Oltre tre milioni di giovani al di fuori dei circuiti formativi e che se anche cercano un lavoro comunque non lo trovano. È difficile coinvolgere le nuove generazioni nella costruzione di un futuro che vada al di là della protesta se non si offre loro una prospettiva di partecipazione a una società più giusta, inclusiva e aperta.
di Donato Speroni, Responsabile della Redazione dell’ASviS