Mi sto abituando a questa nuova vita. Ne parlavo al telefono con il mio amico Angelo mentre gli mostravo in video il traffico intenso della città. Mi sto abituando a questo semi isolamento della Fase 2, che è protezione dal mondo esterno e dalle nuove paure che si sono sommate a quelle vecchie. Mi sto abituando a vedermi così, con i capelli ormai lunghi, più grigi, con lo sguardo domestico e le mani rovinate dall’acqua e dai detergenti che uso per pulirle. Mi sto abituando a considerare mondo esterno il piccolo perimetro dentro il quale mi muovo per fare a spesa, comprare la frutta, fare bancomat e raggiungere casa dei miei. Oltre non riesco ad andare, non mi interessa nemmeno andarci. E’ questa la nuova normalità? O è solo nei gesti, nell’uso della mascherina e dei guanti, della fila per ogni cosa, della pazienza che serve per sopportare tutto e tutti?
Sono sicuro di non essere l’unico a pensarla in questo modo, a vivere così questo eterno presente in cui siamo finiti e dal quale non sappiamo ancora come e quando ne usciremo. Speriamo vivi. I giorni passano, vanno via senza nemmeno fare un saluto. Questo tempo inizia ad essere un ricordo ed è un bene: perché vuol dire che il cammino è iniziato in un punto che sembra lontanissimo, anche se non lo è, e la strada consumata non è poi così poca. Quanta ancora toccherà attraversare per raggiungere il riposo? E cosa ci aspetta quando il viaggio sarà finito? Nessuno lo sa. Sappiamo che la scienza sta andando avanti nei suoi studi e nella ricerca di un vaccino. Sappiamo che i numeri che raccontano drammaticamente questa pandemia sono diversi, hanno più luci e meno ombra, ma sappiamo altresì che ci vuole ben poco per ripiombare nella notte più profonda.
Le speranze mutano di giorno in giorno, ma le paure restano intatte. Ma abbiamo anche certezze, seppur poche. Sappiamo che il virus è ancora in giro, che è pericolosissimo, che sa riprodursi molto facilmente e che basta lavare spesso le mani con acqua e sapone, usare la mascherina e mantenere la giusta distanza da tutti per evitare il contagio. Non è facile ma ci stiamo lavorando quasi tutti per far diventare queste norme delle nuove abitudini. Tutti, o quasi, abbiamo trovato un nuovo equilibrio in questa quarantena. Tutti, o quasi, abbiamo stabilito una nuova relazione con noi stessi e con la vita degli altri. Tutti, o quasi, abbiamo pesato le paure e le responsabilità, il senso civico, l’istinto di sopravvivenza, il vero senso della libertà, della democrazia, del governo, della politica, della scienza, della medicina, dell’attesa. In cinquanta giorni e più tutto è cambiato perché noi stessi siamo cambiati. Adesso abbiamo paura di uscire, di tornare lì fuori, di recuperare quello che abbiamo lasciato fuori la porta di casa. Non parlo degli affetti più cari, o del lavoro, ma di tutto quello che era parte della routine quotidiana e di cui abbiamo imparato a fare a meno scoprendo, giorno dopo giorno, che non era poi così importante e che tutto quello stress era inutile e dannoso.
In questa quarantena abbiamo scoperto cosa c’è all’estremo limite del vero, ci siamo scontrati faccia a faccia e senza distanziamento sociale con la nostra natura più profonda, con i limiti e con tutte quelle bugie che ci siamo detti quotidianamente per non sentirne la presenza, il passo, il peso. La paura degli altri, il bisogno di solitudine, la distanza come salvezza non solo fisica. Un ecosistema costruito su una ritualità lenta divenuta ormai automatismo e che in quanto tale inizia a dare piacere. Le riunioni fatte in cucina, le serie tv bruciate in un weekend, il pane e le pizze fatte in casa – presto sostituite con pizze portate a casa dai rider -, i balconi festanti diventati poi silenti e consapevoli del dramma collettivo che stiamo ancora vivendo, l’insonnia ed il bisogno di cibo per compensare, gli sbalzi di umore, il termometro prêt-à-porter, le mascherine sui termosifoni ad asciugare.
Recentemente in un’intervista Mauro Maldonato, psichiatra, ha spiegato qual è stata la nostra principale reazione a questa crisi: La crisi si è incaricata di svelarci che la natura altruistica dell’essere umano è una creazione retorica: c’è stata una immunizzazione verso gli altri. E’ vero che siamo tutti sulla stessa barca, ma ci si concentra sulla sopravvivenza individuale. Non è bello da dirsi, però è così. Il problema della salute mentale diventa oggi un problema politico”. Sempre in questa intervista Maldonato indica una possibile via di fuga da questa paura. Servirà molto tempo per riparare le nostre emozioni danneggiate, ma è nei bambini e nel loro stare al mondo che possiamo trovare una via possibile di uscita. Soprattutto nella loro capacità di trovare sempre nuove soluzioni autonomamente. L’inventiva, la creatività, la tanto invocata resilienza, la libertà da dogmi e schemi precostituiti che questa quarantena ha sgretolato.
Non smarrire l’infanzia del proprio Io è forse soluzione più naturale per affrontare da adulti la vita che verrà.