Quando va al ristorante, lei scatta una foto del piatto che sta per gustare e la pubblica su Instagram, taggando il locale. Un’azione abituale come fare colazione con latte e cereali. Se fa una vacanza o una gita fuori porta, non può esimersi dal documentarne i momenti salienti. Sempre su IG. Facebook, infatti, è roba da Boomer, mentre Twitter e LinkedIn sono pressoché sconosciuti. A lei non interessa tanto il numero delle visualizzazioni né diventare una influencer. Bensì, semplicemente, condividere gli aspetti “più felici della propria vita” con gli amici. In caso contrario “l’esperienza sarebbe vissuta a metà”. Non sarebbe reale al 100%.
Lei è nata nel 2000 e chiacchierarci insieme risulta parecchio istruttivo.
Non tanto per il fatto che i 2000 considerino i 1980 “anziani”… Piuttosto perché, per esempio, diventi realmente consapevole che gli Youtuber sono davvero (ma davvero) considerati autorevoli, ossia degni di fiducia (non ti bastassero le considerazioni dei tuoi figli, classe 2009 e 2011).
Nonostante la Generazione Z sappia cosa siano le fake news e sia consapevole che i propri percorsi digitali vengano indirizzati in buona parte dagli algoritmi, la maggior parte è convinta che gli Youtuber (la TV ormai è derubricata a soprammobile) “ti fanno vedere la vita vera, per esempio con la loro daily routine. Inoltre sperimentano sempre quello di cui parlano. Sono giovani come me e si sono fatti il mazzo per arrivare ad avere followers e a guadagnare. Lavorano tanto. Sì, sono credibili”. La mia fonte, classe 2000, ha, infatti, precisato che il giudizio dello Youtuber su un prodotto da lui testato e mostrato online ha un valore incommensurabilmente maggiore rispetto a quello che trasmette una qualunque pubblicità che invece “è costruita, quindi finta”.
Per la Generazione Z l’esperienza è vissuta al 100% solo se condivisa sui social
“A patto che sia un’esperienza positiva. Il dolore non va mostrato”.
Grazie a questo incontro, insieme a diversi altri che ho la fortuna di fare con svariati ventenni della redazione di Milano AllNews, sto imparando molto di più di quello che avrei potuto immaginare.
L’ascolto è la prima regola per instaurare un dialogo generativo.
Un ascolto reale, partecipato e non giudicante. Socrate lo aveva scoperto all’inizio della nostra Storia. Si chiama maieutica, ossia “il criterio di ricerca della verità, consistente nella sollecitazione del soggetto pensante a ritrovarla in sé stesso e a trarla fuori dalla propria anima”. Se vogliamo comprendere chi vive in un altro mondo, quello sul crinale tra analogico e digitale, per metà dentro e per metà fuori gli schermi, per prima cosa: domandiamo.
In questo modo possiamo provare a entrare negli schermi, secondo un altro punto di vista, quello di chi li continuerà a sviluppare in futuro.
Così possiamo accompagnare gli adulti di domani alla consapevolezza di un utilizzo… utile. Accanto alle numerose potenzialità creative, infatti, il primo dato che nel 2020 salta all’occhio è quanto i luoghi digitali siano caratterizzati dalla banalità. Ormai talmente pervasiva da essere difficilmente distinguibile.
Una banalità così… banale da far dimenticare la grande intuizione di Hannah Arendt sulla banalità del male.
Eppure ci sono creatività, voglia di esprimersi e di partecipare che, però, mancano delle basi educative e culturali utili per dare spazio in modo non banale ai talenti. E di certo non per colpa della Generazione Z!
Il desiderio di dare un contributo alla società è forte e diffuso.
A tutte le età e forse ancora di più fra i giovanissimi. Come testimoniano i movimenti per un “mondo migliore”: da quello lanciato da Greta Thumberg all’Afroitalian Souls fino ai vari attivismi per la libertà di genere piuttosto che di espressione.
Tutto davvero molto interessante e in continuo liquido movimento. Io faccio parte della generazione cerniera. ‘Anziana’, ma non ancora Boomer (si dice che la classe 1980 vada classificata come Xennials) che deve necessariamente prendersi in carico tutto questo. Anche perché in molti abbiamo già in carico i nostri figli, tutti nativi digitali.
C’è più distanza e quindi maggiore incomunicabilità tra una Boomer e un nativo digitale piuttosto che fra due coetanei, nati e cresciuti ai poli opposti del mondo.
Ecco che ancora una volta risulta fondamentale una educazione digitale condivisa, partecipata e, in fin dei conti ‘maieutica’. Prima che la situazione sfugga dagli schermi così tanto da avere bisogno di ‘mediatori di realtà’. Figure professionali provenienti da un mondo distopico dominato dagli schermi col compito di prendere in carico i ‘malati di banalità’ incapaci di riconoscere ciò che è reale, ossia il valore delle persone e delle esperienze.