Come non posso calpestare per strada il Crocifisso, così non posso offendere la mucca, se parlo con un vegano.
Si tratta di sensibilità.
Oppure di regole e di diritti.
E se invece si trattasse di identità?
Robert Mckee scrive: Una regola dice: “Tu devi fare in questo modo”. Un principio invece afferma: “Questo funziona… e a memoria d’uomo ha sempre funzionato”. E’ una differenza essenziale.
Quindi come possono capirsi, oggi, un cristiano, un ateo, un musulmano, un vegano, un cacciatore, un eterosessuale, un/una queer, un transgender ecc. ecc. ecc.? Se in più appartengono a generazioni diverse, il dialogo diventa ancor più siderale.
Ci hanno insegnato che la soluzione sta nel dibattito democratico. I sistemi democratici moderni funzionano, infatti, in modo tale che i comportamenti compatibili con l’ordine democratico vengano codificati in leggi. Il dibattito conseguente riguarda il modo con cui le Istituzioni operano nella separazioni dei poteri. Oggi si sta assistendo a una forte e sempre più radicale polarizzazione delle opinioni, in tutto il mondo, che mette il potere giudiziario sotto pressione con richieste di norme e decreti, prima ancora che il potere legislativo abbia il tempo di rifletterci.
In sostanza si sta rischiano il garantismo giuridico, dimenticando che i rappresentanti eletti dal popolo siedono in Parlamento, non in tribunale.
Siamo una umanità in cerca di identità che ha dimenticato come si vive la democrazia. Siamo una umanità senza politica, nel suo significato più autentico.
Questo disorientamento nasce da una frattura storica, cominciata con l’inizio del ventunesimo secolo e allargatasi fino ad oggi. Nasce dall’idea per cui chi non la pensa come il mainstream si sente un outsider. Volutamente uso due verbi semanticamente divergenti: sentire e pensare. Il problema, infatti, sorge quando le opinioni, tutte le singole opinioni, vengono portate incondizionatamente sul piano costituzionale in una rivendicazione delle sensibilità. Qualunque esse siano. Questo rischia di generare il caos. Perché nel calderone allora, estremizzando, anche il razzista potrebbe vendicare la sua sensibilità oppure il maschilista contro la femminista ecc. ecc. ecc. Diversamente la Costituzione, per sua definizione, serve a identificare i diritti universali. Prima ancora di difendere i giusti e sacrosanti diritti delle minoranze, di qualunque genere, dobbiamo imparare a conoscerci reciprocamente e a metterci in relazione sulla base della nostra appartenenza al genere umano. Altrimenti sarà sempre una guerra tra sordi.
Se la mia idea è diversa dalla tua, di chi è il diritto?
Cosa significa allora pluralità?
Come è possibile perseguire ognuno la propria felicità, assicurando al contempo il bene di tutti i cittadini, senza generare il caos?
La risposta non ce l’hanno i costituzionalisti, figuriamoci chi scrive. Proviamo soltanto a fare un viaggio nelle identity politics di casa nostra. Eh sì, perché non è più soltanto una questione di politically correct di cui forse la Generazione Z ha solo sentito parlare.
Il paradosso dei diritti umani
Siamo ufficialmente entrati nell’era delle identity politics, mirabilmente comprese in un articolo che dovremmo appenderci in bacheca: Dall’identità alle identity politics: la rinascita dei nazionalismi nel sistema costituzionale europeo di Luca Vanoni, docente di Diritto Pubblico presso l’Università degli Studi di Milano.
Lo riassumo a stralci: “Una delle principali caratteristiche che connota il costituzionalismo è la ricerca di una soluzione a una problematica paradossale: costruire un sistema giuridico che consenta la pacifica coesistenza tra tutti i cittadini, garantendo loro la libertà di scegliere i diversi modi attraverso cui perseguire la felicità nel riconoscimento della propria identità. Un tempo, il tema delle identità era sostanzialmente demandato all’appartenenza dei cittadini a una data nazione”.
Oggi questa accettazione identitaria è stata messa in discussione “dalla globalizzazione, dall’emergenza migratoria, dal crescente pluralismo e, in generale, dall’avvento della post-modernità […] Il concetto di identità collettiva legato alla lealtà per il proprio Paese è stato quindi sostituito con quello di identità individualizzata, fondato sull’autodeterminazione”.
Questo ha favorito la nascita delle identity politics e una conseguente “frammentazione psicologica [che ha] strutturalmente influenzato la percezione che ognuno di noi ha della propria autenticità […]”.
E così le identity politics, nate da presupposti sacrosanti, hanno finito per incrementare il disaccordo politico (con lo svilupparsi dei nazionalismi) e sociale (cavalcando la liquidità nella sua accezione più caotica).
Dalla mancanza collettiva di consapevolezza e di riconoscimento identitario siamo passati dunque al paradosso delle libertà, tanto da preferire, in alcuni casi, il decreto di legge al dibattito democratico.
“Il linguaggio dei diritti umani è soggetto ad una doppia grammatica: una universalizzante e una intrinsecamente individualizzante che possono entrare in conflitto tra di loro, soprattutto se non sono accompagnate da un processo di composizione degli interessi svolto all’interno di un dialogo politico-rappresentativo”.
La lingu* riflette tutt* quest*
Non c’è niente da fare. Il linguaggio è direttamente legato al pensiero. Dunque la lingua riflette la confusione identitaria. Chissà cosa direbbe Quelo che già nel 1997 si chiedeva: Dove stiamo andando su questa Tera!?
La professoressa Vera Gheno su Bossy scrive: Ora se da una parte i pregiudizi sono praticamente necessari per vivere, dato che ci permettono di non ripartire tutte le volte da zero con la nostra conoscenza, dall’altra permeano il nostro modo di pensare e di conseguenza anche il linguaggio che usiamo. In breve, siamo abituati a parlare e scrivere in un certo modo e tutto ciò che va a cambiare quello stato di cose tende a innervosirci […] L’altra cosa importante da sapere è che in generale riflettere su una questione non vuol dire “voler cambiare la lingua” (che non si cambia quasi mai a tavolino) ma, appunto, osservare dei fenomeni, chiedersi da dove vengano e dove vadano; aggiungo, infine, che qualsiasi riflessione sull’introduzione di parole nuove (processo decisamente più semplice) o di desinenze di genere (cambiamento molto più difficile da far accadere in una lingua: il livello della morfologia è molto meno soggetto a cambiamenti che non il lessico) non farebbe che aggiungere qualcosa alla nostra lingua. Aggiunta, non sostituzione: questo dovrebbe essere una sorta di “mantra” per chiunque si approcci a studi linguistici. La nostra lingua si arricchisce, se ben stimolata, per tutta la vita, e non c’è necessità di rimuovere qualcosa per far posto a qualcos’altro. Possiamo continuare ad aumentare il nostro bagaglio linguistico senza che ogni aggiunta debba corrispondere a una contemporanea perdita.
Michele Colombo, professore di Linguistica italiana presso il Dipartimento di studi romanzi e classici dell’Università di Stoccolma, entra nel merito del paradosso delle libertà prendendo spunto dalle desinenze con l’asterico:
‘Carissim*’ è la formula di apertura che, in alcuni ambienti dell’accademia e della politica si comincia a leggere nelle e-mail indirizzate a più destinatari. Il riferimento vorrebbe essere all’operatore che si può impiegare, nei motori di ricerca, come sostituto di una o più lettere dell’alfabeto. È un uso molto interessante, nel merito e nel metodo.
Per quanto riguarda il metodo, infatti, è un esempio specialmente chiaro di quello che sosteneva David Foster Wallace, cioè che il politicamente corretto serve all’immagine di chi lo usa molto più di quanto miri al sostegno effettivo delle categorie che dice di difendere. Di qui il sentore di paternalismo che emana da ‘Carissim*’, con quell’asterisco che somiglia pericolosamente a quelli usati per coprire insulti beceri come fro**o o che**a.
Anche nel merito, l’asterisco è rivelatore. Perché, al di là delle apparenze, la formula ‘Carissim*’, che si applica a tutti indifferentemente, non significa più generi, ma nessun genere, cioè il rigetto della differenza sessuale. Viene in mente, benché riguardi tutt’altro contesto, lo scambio di battute tra Amanda Bonner (Katharine Hepburn) e il marito Adam (Spencer Tracy) in un vecchio film del ’49 di George Cukor, Adam’s rib’(La costola di Adamo’):
Amanda – Hai provato che ho ragione io, non c’è differenza fra i due sessi: maschi, femmine, uguali!
Adam – Eguali, eh?
Amanda – Be’, magari esiste una differenza, ma è piccola.
Adam – Be’, lo sai cosa ne dicono i Francesi…
Amanda – Cosa dicono?
Adam – Vive la différence!
Amanda – E con questo?
Adam – Evviva quella piccola differenza!
Ci chiediamo come vivere la complessità attuale, sempre più liquida. Spesso la subiamo senza prenderne consapevolezza. Tuttavia senza un’autentica relazione comunicativa veniamo travolti dalle ‘sensibilità’, arrivando a complicare ulteriormente la complessità.
Chiediamoci allora se, per esempio, gli asterischi (o la variante della -u finale) se servano davvero, perché il paradosso della libertà comincia dalla libertà di parola. Per esempio quando vengono coinvolti anche i pronomi.
La riscossa dei pronomi
Negli Stati Uniti l’oltranza linguista ha coinvolto i pronomi, giudicati colpevoli di essere binari, ossia o maschili o femminili. La lingua inglese ha tuttavia il neutro che la salverebbe dal tragico aut aut. Eppure sembrerebbe non bastare. Così alcuni si fanno chiamare al plurale, they, ma pure questa soluzione è risultata insufficiente a rispettare la sensibilità… plurali. Ecco allora che sono nati i pronomi non-binari. Ad oggi più di 20 come: “ze”, “zir” e “zim” oppure “xe”, “xir” e “xim”. Intanto alcuni blog spagnoli transfemministi hanno proposto l’introduzione del pronome neutro “èlle” per identificare le persone non-binary e gruppi misti. La comunità queer tedesca ha invece pensato di creare pronomi a seconda del caso: “xier” è al caso nominativo; “xien” all’accusativo, “xiem” al dativo, “xies” per il genitivo e per la forma di cortesia, mentre l’articolo associato al pronome “xier” è “dier”, un mix tra “die” femminile e “der” maschile. Vi sono poi pronomi sperimentali come “nin” e “seis”. Il francese tende a utilizzare pronomi neutri quali “ille”, “iel” e “yel” oppure “ol”, ma solleva il problema degli aggettivi, anch’essi di genere. La Svezia ha tagliato invece la testa al toro già nel 2015, quando ha addirittura aggiunto nel dizionario il pronome neutro “hen”, sia per identificare il non-binarismo di genere sia per i gruppi misti.
Tornando al di là dell’oceano, in Canada, lo psicologo clinico e professore di psicologia dell’Università di Toronto Jordan Peterson si è rifiutato di rispettare la legge anti-discriminazione in discussione al parlamento canadese, secondo la quale bisogna usare obbligatoriamente i pronomi desiderati dalle persone transgender in nome della libertà di parola. Peterson ha spiegato così il suo rifiuto: “Ho studiato l’autoritarismo per lungo tempo – per 40 anni – e stanno cominciando, dai tentativi della gente, a controllare il ‘territorio’ ideologico e linguistico”.
Insomma, anche obbligare ad adottare un linguaggio è una forma di dittatura!
Siamo dunque paradosso di Orwell, ossia siamo passati dal bipensiero totalitario del Grande Fratello al multipensiero liquido della dittatura dell’inconsapevolezza, frutto della mancanza di identità collettiva.
Quale identità e quale libertà
Ci sono tante identità quante sono gli abitanti del Pianeta. Potenzialmente dunque ci potrebbero essere altrettante rivendicazioni. Inoltre se la libertà civica fosse semplicemente: Sii te stesso e rivendicati! sarebbe l’anarchia, Per questo motivo la politica dell’identità, nonostante i presupposti lodevoli, ha ancora molte domande a cui dare risposte, non paradossali. Possiamo provare a ripartire dalla Costituzione con l’individuazione dei diritti universali che sostanziano la nostra umanità, perché sono ricollegabili alle esigenze primarie dell’essere umano in quanto tale: verità, libertà e giustizia. Forse questa potrebbe essere la base per un confronto realmente inclusivo in cui tutti comprendiamo di essere uguali pur nella diversità.