InversamenteDemocracy is broken. Il paradosso della libertà da Brescello a Capitol Hill

Il 6 gennaio 2021 ha mostrato al mondo che la democrazia è in crisi. Don Camillo e Peppone facevano pace per il bene comune. Oggi invece liberal e conservatori ad ogni latitudine non hanno più il riferimento di valori condivisi

Democracy is borken

Con i fatti di Capitol Hill del 6 gennaio 2021 il mondo sembrerebbe sempre più simile alla Brescello in bianco e nero di Don Camillo e Peppone. Fazioni opposte in stato di belligeranza continua. Con la sostanziale differenza, però, che le due opposte fazioni raccontate da Guareschi, alla fine, trovavano sempre un accordo di pace, non frutto d’interesse, bensì in favore del bene della comunità. Don Camillo e Peppone anzitutto erano amici e in secondo luogo interpreti di un’idea, non di una ideologia.

Con i fatti di Capitol Hill si è reso evidente, se ancora ce ne fosse bisogno, che la democrazia sta agonizzando, anche grazie al supporto del web che ci mette il suo carico di iniezione letale. Così come internet is broken, oggi possiamo dire che anche democracy is broken.

La rabbia che scuote la democrazia

Eppure continuiamo ad essere faziosi. Vecchie e nuove generazioni. Ricchi e poveri. Al di là e al di qua dell’oceano. Gli Stati Uniti, dove è cominciata la storia della democrazia contemporanea, sono i capofila quasi naturali di questa parabola discendente.

Al di là dell’oceano, ormai l’evidenza di una divisione antica non può più essere negata. A tal proposito Ernesto Galli della Loggia nell’editoriale sul Corriere della Sera del 13 gennaio 2021 si interroga su Cosa ci dice la rabbia quando scuote le nostre democrazie:

«Oggi si sente sempre più spesso salire dal fondo delle nostre società un rabbioso sentimento di anomia e di non appartenenza, una puntigliosa volontà da parte di tanti di non riconoscersi in ciò che è considerato normale, nei valori ufficialmente professati […] a causa delle gigantesche trasformazioni ideologiche e del costume avvenute nelle società occidentali nel corso degli ultimi due o tre decenni […] Si badi, qui non si tratta di stabilire se questi cambiamenti siano stati in sé positivi o negativi. Si tratta piuttosto di rendersi conto della loro portata realmente enorme […] ciò che spinge la gente in piazza decisa a fare tabula rasa non sono tanto le diseguaglianze e i disagi economici. Quel che più conta è il sentimento di giustizia offeso, fondato o meno che sia non importa».

Questa «sfiducia sferzante verso la democrazia» da una parte è complice del «crescente orientamento oligarchico che si sta producendo nei sistemi democratici», dall’altra, proprio a causa del mancato riconoscimento di valori condividi, ha generato le politiche identitarie.

Il cane di Pavlov

Al di qua dell’oceano Claudio Cerasa, condivide sulla pagina Instagram de Il Foglio un pensiero a tema Covid e no vax che, tuttavia, ben si adatta all’argomento, ossia la comunicazione che contribuisce all’attuale lacerazione democratica:

«Di fronte a un malessere fisiologico che attraversa le nostre vite, i professionisti dell’informazione hanno due strade: informare il Paese senza invitare i cittadini a travestirsi da vichinghi e senza seguire il modello del cane di Pavlov (ovvero individuare un tema e fare di tutto per stimolare nel pubblico la bava dell’indignazione) oppure informare provando a contenere l’indignazione facile».

La comunicazione oltre il mainstream

Lo spirito democratico dovrebbe innervare il mondo di comunicare. Non ci resta altro che invocare un nuovo Guareschi che con l’umorismo teneva lontana la tentazione dell’ideologia? Oppure  possiamo far emergere le nostre capacità per dare vita a un nuovo modo di comunicare consono ai tempi e nello stesso tempo dignitosamente rispettoso dell’identità umana?

Alla tastiera di un computer o con la videocamera in mano la sensazione è sempre la stessa: dribblare una serie di barricate, prima di poter esprimere un pensiero senza il rischio di venire travolti dalle bordate del mainstream. Il mainstream che sta dappertutto: quello risentito, reazionario e bacchettone e quello risentito, liberale e ideologico. I media raccontano le istanze liberal animate da un’apertura totale a ogni tipo di diversità, trovando la diversità anche quando non c’è. Mentre il popolo dell’America rurale piuttosto che il buon caro vecchio proletariato europeo sta sulla difensiva, chiusi nei propri orticelli. Paurosi e ostili al diverso. Il risultato sono sempre le barricate.

Ironia della sorte un elemento in comune, però, l’abbiamo trovato: il risentimento figlio della sfiducia. C’è chi non diffida della tradizione e chi non si fida del sistema.

In ogni caso quando la fiducia muore, lasciando di sé soltanto la dedizione su Wikipedia, il rancore e la rabbia hanno la meglio.

I pipponi su Trump bannato dai social

Con i fatti di Capitol Hill, invece di guardarci dritto negli occhi per cambiare finalmente in meglio il corso della storia, ci facciamo pipponi mentali sulla legittimità della scelta di bannare Trump da parte di Facebook e Twitter che, forse, con questa mossa non si sono accorti di aver implicitamente ammesso di essere responsabili dei contenuti pubblicati dai loro utenti… ma questa è un’altra storia.

Sicuramente la questione solleva quesiti interessanti, ben espressi da Massimo Cacciari, filosofo, professore ed ex sindaco di Venezia:

«C’è un problema di fondo, che è al di là e al di fuori di Trump. È inaudito che imprenditori privati possano controllare e decidere loro chi possa parlare alla gente e chi no. Doveva esserci un’autorità ovviamente terza, di carattere politico che decide se qualche messaggio che circola in rete è osceno, come certamente sono quelli di Trump. Che sia l’imprenditore a farlo, che è il padrone di queste reti, è una cosa semplicemente pazzesca. È uno dei sintomi più inauditi del crollo delle nostre democrazie. Non c’è dubbio alcuno. Perché come oggi è Trump, domani potrebbe essere chiunque altro, e lo decide Zuckerberg. È una cosa semplicemente pazzesca».

Eppure sembra non ci si accorga di un fatto che rende superflue discussioni di questo tipo, in quanto ci allontana dal focus. Un fatto  che ha mirabilmente espresso Fabio Ranfi, direttore di Milano AllNews:

«Queste compagnie che ci ostiniamo a chiamare multinazionali, in quanto hanno sedi sparse ai quattro capi del mondo, rimangono sempre e comunque delle aziende americane. Made in USA. A questo punto quindi, se guardiamo cosa è accaduto a Washington dagli occhi un cittadino americano, sia esso il più povero dei disagiati o il più tecnologico dei CEO della Silicon Valley, capirete che la risposta forte, immediata e apparentemente esagerata è frutto di una risposta verso una minaccia interna, una minaccia vicino a casa, un pericolo di colpo di stato, nella propria nazione. Forse anche di una paura vissuta in prima persona».

Il problema in questo caso specifico è dunque l’“americanocentrismo” che tuttavia rappresenta l’altra faccia della medaglia dell’America first di Trump, perché, comunque la si guardi, alla fine è sempre l’autoreferenzialità a vincere. Che siano i vaneggiamenti di Trump e dei suoi proud boys o le identità liberal alla fine ognuno guarda al proprio ombelico come se l’effetto Nimby (Not in my back yard) stesse sostituendo lo spirito democratico.

Vedremo se entro il 6 gennaio 2022 saremo tutti più Human first.

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