Serialità ignorata“Friday Night Lights”, le partite in tv più belle non sono di calcio

Questi anni di Covid vi hanno abituati a tenervi lontani dalle storie troppo impegnative, da quelle con una forte anima thriller? E magari cercate qualcosa che vi rassereni. Non volete sit-com classiche perché non volete spegnere completamente il cervello e lasciare che una risata registrata vi suggerisca quando ridere. Volete una serie drammatica che parli della vita che avete lasciato e che vorreste riavere. Anzi, no. Di più: volete una serie drammatica che parli di vita con profondità come di rado capita di sentirne parlare. Volete una serie che vi racconti la vita come dovrebbe essere. Una vita ideale, ma realistica, credibile, facilmente accessibile. Cercate voci che parlino dalle profondità dell’anima dietro una maschera di ordinarietà.

Voi volete vedere “Friday Night Lights”. Forse vi ho incuriositi, forse no. Forse avete già mollato questo articolo per precipitarvi su Google e informarvi su questo show. Se è così, scoprireste che è una serie del 2006 e che dalle nostre parti, dopo il passaggio su Fox e Joi, è arrivata su Rai 4. Sì, una rete piccina picciò che all’epoca (2009 l’anno del debutto in chiaro) prendeva sì e no in qualche regione, quando in realtà avrebbe meritato un bello slot serale su Rai 2.

Di cosa parla “Friday Night Lights”? Vi direi di football liceale ma probabilmente vi indisporrei. Allora vi dico che parla anche di football liceale, ma principalmente di vita liceale, e non fotografata nei suoi stereotipi mocciani: è la vita più vicina a quella di un ragazzo di uno sperduto comune abruzzese. Si studia, si sopportano i cazziatoni dei genitori, si cerca di non apparire troppo sfigati e si cerca di sopravvivere alle insufficienze in matematica. Le dinamiche di coppia, i triangoli, il sesso, l’amore sono solo un condimento aggiuntivo – piacevole, eh, ma non fondamentale. È tutto clamorosamente, stupendamente realistico. Realistico è l’aggettivo cardine per la descrizione dello show. Nessuna recensione di “Friday Night Lights” ha diritto di cittadinanza sul web o sulla carta stampata senza questo aggettivo. Anche lo stesso condimento delle dinamiche amorose – ripetiamolo: assolutamente non fondamentale (la serie reggerebbe benissimo senza) – è credibile: se i teendrama che sono venuti prima – ebbri di plastica e stupidità – volevano suggerire l’idea romantica quanto immonda dell’anima gemella, in “Friday Night Lights” l’amore è la fiammella di una candela che si spegne quando viene accostata allo stoppino di un’altra candela. Proprio. Come. Nella. Vita. Reale.

Il realismo non è solo affare di trama. Anche la regia ne è contaminata. Non c’è una sola scena in “Friday Night Lights” che non sia girata con la camera a mano. Sembra che si voglia dare l’idea – in modo insistente e continuo – che la vita è qui e ora, che ogni piccolo gesto conta, che ogni parola, per quanto apparentemente superflua, va a comporre il romanzo complesso e stratificato della nostra esistenza. Ma credo che il vero significato che questo stile registico intenda veicolare, spalmandosi tanto sulle partite di football quanto sulle altre scene è che la vita funziona esattamente come lo sport: ogni piccolo gesto – inteso come un saluto, un cenno o anche un sorriso – conta perché può avere un enorme impatto sulla quotidianità degli altri proprio come nel football ogni mossa incide sull’andamento della partita e quindi sulle azioni dei compagni di squadra.

Se c’è una critica che si può muovere è il fatto che i personaggi seppur investigati nella loro interiorità risultano sempre semplici e pragmatici. Non c’è un Walter White, chiaro, ma non c’è neanche un Dawson Leery. “They are generous people with a big heart”, sono stati spesso definiti sulla stampa americana. Persone di buon cuore come ne troveresti in un piccolo centro di provincia, ma senza stravaganze o turbe mentali che avrebbero portato la serie lontana dalle metafore che voleva comunicare.

Persone come il coach Taylor, dall’aspetto burbero ma di buon animo, la moglie Tami, dolce e comprensiva, e la figlia Julie, apparentemente ribelle ma in realtà molto legata alla famiglia. O come Tim Riggins, il tipo figo e scapestrato che col football impara a rigare dritto, o Landry Clarke, il secchione sfigato che si innamora della tipa inarrivabile e gioca a football per uscire fuori dalla sua comfort zone.

Se credete che la recensione si concluda senza cha parli del football nello show vi sbagliate. Tocca parlarne. Il football non è inquadrato nelle vuote logiche della vittoria e della sconfitta, come una qualunque partita Juventus-Milan trasmessa su Rai 1, anche perché una serie che insistesse su quei concetti sarebbe stata un po’ antipatica oltre che noiosa. No: giocare a football, nella serie, significa smettere di pensare a se stessi, armonizzare le proprie qualità con quelle dell’altro, costruire ponti; lo scontro con gli avversari, sebbene superficialmente appaia con tutte le caratteristiche della classica partita calcistica con contorno di improperi, in realtà – e qui sta la bellezza della serie – diventa metafora di ostacoli di vita che solo insieme, fidandosi degli amici e delle proprie capacità, è possibile superare. Come riesce la serie a costruire questi parallelismi? Con la forza della scrittura. Tutte le linee narrative che si intrecciano in ogni puntata affrontano i temi della crescita e della maturità e la partita di football, coincidendo spesso col climax, quindi con la conclusione, reca l’eco di tutte le storyline e quindi giocando a football è come se i giocatori affrontassero i conflitti che li attanagliano fuori dal campo.

A rimarcare la crucialità della partita c’è anche un ottimo montaggio. Tolgono il fiato le immagini del viso madido di sudore di un giocatore che si alternano all’immagine del tempo che scorre sul tabellone in campo e del punteggio che implacabile sembra consegnare la vittoria ai rivali, poco prima che una strategia dell’ultimo secondo ribalti l’andamento della partita; emoziona seguire il giocatore che cozza contro le difese degli avversari e che riesce a conservare la palla fino al touchdown grazie ai compagni di squadra accorsi in suo aiuto. Giochi di camera e montaggio sono sempre imprevedibili, non si ripetono mai, ed è anche per questo che le partite risultano sempre così avvincenti.

Adesso non so se augurarvi buona visione o buona partita.

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