Il ’68 del Cairo tra Louis Vuitton e Facebook

Il ’68 del Cairo tra Louis Vuitton e Facebook

Si è parlato delle rivolte arabe di queste settimane come del «1989 del Medio Oriente»: uno dopo l’altro, presidenti semidemocratici devono affrontare e fuggire di fronte a folle in protesta. Le richieste sono di avere una piena rappresentatività del popolo e di fermare la corruzione delle élite. C’è stato anche chi ha parlato della «realizzazione inaspettata della visione di George W. Bush»: dopo due guerre e quasi seimila morti americani si starebbe avverando il progetto di «introdurre la democrazia in Medio Oriente», dopo l’esempio dell’Iraq e dell’Afghanistan.
Con buona pace degli osservatori anglosassoni, possiamo affermare che quello arabo di oggi non è un 1989, ma piuttosto un 1968.

Ha tutti i caratteri della rivoluzione borghese. In Iran, Algeria, Marocco, Tunisia, Giordania l’economia è cresciuta, così come la ricchezza pro capite, e a partire dal 2008 ha vissuto un profondo declino che ha colpito soprattutto i giovani e le classi meno abbienti, coinvolgendo i ceti più istruiti. A Teheran sfilavano non solo i disoccupati, ma anche gli studenti dei quartieri più ricchi a Nord della capitale, quelli maggiormente influenzati dalle suggestioni internazionali. In piazza al Cairo sono scesi ragazzi delle periferie insieme a «donne con le borse Louis Vuitton», riporta il New York Times. Le borse saranno state sicuramente false, ma segnalano aspirazioni e stili di vita “alti”. Il premio Nobel El Baradei, arrestato e poi rilasciato al Cairo, non rappresenta la rivolta, ma ne è espressione, come Marcuse tra le folle studentesche. È un passaggio alla modernità che dipende dall’affluenza economica, e che le società industrializzate europee hanno già compiuto quarant’anni fa. Ancora, il simbolo più estremo dello scontento è stato da noi la formazione delle fazioni estremiste di destra e di sinistra; nel mondo arabo si vive negli ultimi mesi un ritorno delle azioni eversive che con l’attacco del 2 gennaio ad Alessandria ha ucciso 21 persone.

Contrariamente al 1989 in Europa, manca oggi in Medio Oriente una potenza imperialista che abbia imposto forme di governo inique e legate a un sistema territoriale esterno, come nel caso del Cremlino nei confronti dell’Est Europa. Nel 1989 si temeva che la festosa anarchia della caduta del Muro venisse bruscamente interrotta da un intervento di carri sovietici, impedito su preciso ordine di Gorbaciov. Non c’è oggi alcuna potenza straniera che possa inviare i suoi tank a Tunisi o al Cairo per fermare le proteste. Tutto si svolge internamente. I blindati per le strade egiziane sono dell’esercito egiziano; i soldati a Tunisi sono dell’esercito tunisino; i poliziotti di Algeri sono algerini.
È proprio questo carattere fortemente domestico che ci porta anche a scontentare Bush: non si sta realizzando alcun «risveglio democratico» nel senso liberale in cui l’ex presidente americano avrebbe potuto sperare. Il sogno dei Paesi maghrebini è quello di una democrazia autarchicamente nazionalista, sul modello turco, che di carattere americano ha ben poco.

Questo può anche avere dei vantaggi: questi Paesi non rischiano di finire tra le braccia di Pechino, come sperano alcuni. Pechino, anzi, è uno degli oggetti della protesta. In Algeria le classi disagiate sono furiose con il presidente Bouteflika perché un piano di incentivazione edilizia ha destinato soldi solo alla bassa manovalanza cinese importata, annullando gran parte degli effetti delle misure anticrisi. Contemporaneamente, al Cairo è stata attaccata l’ambasciata americana. Insieme all’impulso dato dal raggiungimento della “modernità”, è il confronto con le culture aliene che sta portando al risveglio di una coscienza nazionale.
Le rivolte sono contemporaneamente anticinesi e antiamericane. Il modello che questi Paesi si prefiggono potrebbe appoggiare l’una o l’altra forza a seconda degli interessi, così come per quarant’anni hanno fatto tra Russia e Stati Uniti nel corso della Guerra Fredda. In Medio Oriente si sta assistendo a un riordinamento politico post imperialista, dovuto al cambiamento dei poli internazionali. Caduto il ruolo dell’Unione Sovietica, il nuovo asse americano-cinese sta determinando un riassetto. Non è un caso che a partire dal 2005 la Cina abbia iniziato una serie di investimenti importanti dall’Arabia Saudita all’Algeria, e che proprio sul finire del 2010 si sia iniziato a parlare del pericolo di una nuova Guerra Fredda tra Washington e Pechino.

Gli eserciti locali saranno la chiave nel determinare il nuovo assetto dei Paesi. Gran parte dei presidenti mediorientali provengono dai ranghi dell’esercito, da Mubarak stesso, a Gheddafi, a Ben Ali, al siriano Bashar al-Asad che, pur se di professione oculista, è figlio di Hafiz al-Asad, generale dell’aviazione. Nel 2010, in Iran, l’esercito è rimasto fedele al regime; più recentemente in Tunisia ha spinto il presidente Ben Ali alla fuga; in Egitto è la chiave del potere, rappresentando un mondo a parte: le folle sperano che giri le spalle a Mubarak, e contemporaneamente viene ritenuto obiettivo della rivolta.
Gli eserciti hanno determinato il sorgere e il morire di regimi e democrazie mediorientali fin dal dopoguerra.

Hanno condizionato la caduta di Mossadeq in Iran nel 1953 e la caduta dello Scià nel 1979; hanno dettato il ritmo democratico della Turchia almeno una volta per decennio dagli anni Settanta, fino a un tentativo soffocato nei mesi scorsi; hanno sancito la fine delle monarchie in Iraq, in Siria, in Egitto, in Libia. Sempre e comunque, con estrema difficoltà questi movimenti sono riusciti a “esportare” le rivoluzioni. Gli esperimenti di alleanze egemoniche sono durati poco: su tutti, possiamo citare la Repubblica Araba Unita, che rimase in vita solo tre anni tra Siria ed Egitto; o la rivoluzione iraniana stessa, impiantata a forza nel Sud del Libano.
Assisteremo alla creazione di democrazie nazionaliste sul modello turco, in cui i militari faranno da guardiani dell’ordine politico, e ne riceveranno in cambio compensazioni in termini di status. I nuovi Paesi non avranno carattere cinese o americano, ma locale. Soprattutto, nonostante la sincronia nell’esplosione delle rivolte, non avranno caratteristiche panarabe. Il Sessantotto è una presa di coscienza, ma è solo il primo passo verso la maturità politica. 

Stefano Casertano, Mba a Columbia University, insegna all’Università di Potsdam

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