Può esistere un giornale senza carta? Un giornale che accumuli profitti, che paghi buoni stipendi, che garantisca la professionalità e la completezza assicurata da decenni dai giornali cartacei? Questa domanda circola nel mondo della carta stampata fin dalla metà degli anni Novanta, quando il ciclone internet cominciò a soffiare sul mondo dell’informazione. Per anni la maggioranza dei giornalisti italiani ha reagito a questa domanda con ironica sufficienza, come se si trattasse di un interrogativo retorico, che solo quei buontemponi degli americani, con la loro mania delle tecnologie, potevano porre. E mentre negli Stati Uniti la crisi dei giornali assumeva lo status del problema nazionale, e se ne discuteva al Congresso come si fa quando è in ballo il futuro della democrazia, qui da noi poco o niente è accaduto, e ancora oggi molti giornalisti continuano a snobbare l’attività online.
Eppure da discutere ce ne sarebbe parecchio perché i giornali navigano in acque pericolose. L’ultimo a essere stato investito dalla tempesta è Il Sole 24 Ore, dove l’assemblea dei giornalisti ha indetto tre giorni di sciopero per bloccare la transizione al formato tabloid, grande riforma voluta con forza dal direttore Gianni Riotta e osteggiata dalla redazione. Riotta ha visto la sua poltrona traballare e alla fine ha rinunciato al progetto che a suo parere avrebbe dato respiro ai conti in rosso del giornale. Dalle poche cronache pubblicate è sembrata una vicenda personale tra un direttore e la sua redazione. Esattamente come era capitato a ottobre, quando i giornalisti del Corriere della Sera avevano indetto due giornate di sciopero contro il direttore Ferruccio de Bortoli.
E invece c’è molto altro. I giornalisti sono in subbuglio perché le loro testate hanno l’acqua alla gola. Dal 2001 a oggi Il Sole 24 ore ha perso oltre 142 mila copie, cioè il 35,7% delle vendite. La Stampa di Torino e Il Messaggero di Roma hanno lasciato per strada rispettivamente il 25,8% e il 33,6% delle vendite. Il Corriere e la Repubblica hanno fatto appena meglio: il quotidiano di via Solferino ha lasciato sul campo il 23,5% delle copie (141 mila), il giornale di Ezio Mauro il 26,9% (141 mila). E l’emorragia continua inesorabile, anno dopo anno.
Spesso i giornalisti incolpano di questa catastrofe la cecità di editori poco illuminati che non investono, di direttori troppo legati alla catena della proprietà che non lasciano sufficiente autonomia ai giornalisti. Accuse talvolta giustificate, ma insufficienti a spiegare il crollo del sistema della carta stampata che nel suo insieme, dal 2000 a oggi, ha visto crollare le copie vendute del 32 per cento, da circa sei milioni a poco più di quattro milioni (4.067.843, calcolando i 57 quotidiani censiti da Ads).
In realtà, se si pensa al giornale come supporto indispensabile per una società civile informata, è necessario togliere da questi quattro milioni di copie quelle vendute dai tre grandi quotidiani sportivi (La Gazzetta dello Sport, Corriere dello Sport e Tuttosport) il cui ruolo, pur rilevante, ha ben poco a che spartire con i destini della democrazia. Compiendo questa sottrazione restano tre milioni 461 mila copie, una miseria che ogni anno si va assottigliando per effetto dell’inarrestabile scossone che i nuovi media stanno portando alla carta stampata.
E infatti il Censis, in un Rapporto pubblicato un anno fa, definisce «marginale il ruolo della carta stampata nel processo di formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese». Dice il Censis che tra il 2007 e il 2009 il numero di italiani che leggono un quotidiano almeno tre volte la settimana è passato da 51,1 a 34,5. In soli due anni gli italiani che «avevano un contatto stabile con i quotidiani», per usare la definizione usata dall’istituto di ricerca, sono passati dalla metà a un terzo, e questa percentuale comprende anche coloro che leggono solo quotidiani sportivi.
Nella pubblicità le cose non vanno meglio. Secondo l’Istituto di ricerca Carlo Lombardi, dal 2000 al 2009 il prezzo medio di vendita di un modulo di pubblicità si è dimezzato, da 42,29 a 21,05 euro. Dopo un crollo del 23% nel 2009, dovuto alla crisi economica, nei primi dieci mesi del 2010 il fatturato pubblicitario dei quotidiani è sceso dell’1,5%, in controtendenza rispetto ad altri settori che sono cresciuti: la tv del 6,3%, la radio del 10,2%, internet del 17,7%. È il segno che il peso della carta stampata nell’opinione pubblica e nell’economia sta scemando. Non c’è un solo indice che deponga a favore dei giornali tradizionali, compresa l’età dei lettori, che aumenta in modo inesorabile.
La transizione a internet appare dunque ineluttabile, in Italia come all’estero, perché anche nel nostro Paese stanno avanzando le stesse tendenze che altrove hanno cominciato a manifestarsi fin dall’inizio dello scorso decennio. Da molti anni negli Stati Uniti ci si domanda come sia possibile superare questa pericolosa fase di passaggio, con i giornali cartacei che continuano a perdere peso senza che un nuovo modello di business si sia imposto nel mondo del web. Per questo nasce Linkiesta. Per dimostrare che il nostro Paese è maturo per consolidare nuove esperienze innovative, basate non solo sulle ultime tecnologie della comunicazione, ma anche su un modello di proprietà che si ispira alla public company.
Naturalmente in questo nuovo giornale terremo aperto un punto di osservazione sull’evoluzione dei media, cercando di rispondere agli interrogativi più spinosi di questa difficile transizione. Come sta evolvendo la proprietà dei media in questa situazione di cambiamento? Come cambiano i rapporti di forza su internet? Che ruolo può avere il mercato pubblicitario in questa fase di transizione? Ad alcune di queste domande cominciamo a rispondere oggi. Ma è solo l’inizio.