Per alcuni, nonostante la crisi, l’economia irlandese nel terribile 2010 ha regalato sorrisi e grande soddisfazione. Nel Paese dove oggi le urne sono aperte per scegliere il successore dell’ex primo ministro Brian Cowen – in base ai sondaggi, la battaglia si gioca tra Enda Kenny, leader del Fine Gael, principale partito d’opposizione e il Fianna Fail al governo, entrambe di centro destra – c’è infatti un’industria che è cresciuta, l’anno scorso, del 30% rispetto al 2009. A dispetto degli enormi problemi di accesso al mercato dei capitali e del debito del Paese, ormai in piena crisi di liquidità.
Si tratta degli hedge funds, veicoli d’investimento a gestione aggressiva che, come mostrano i dati della Irish funds industry association (Ifia), la lobby del settore, nel 2010 hanno amministrato asset per un valore globale di 1,8 trilioni di euro, segnando il record storico, con una crescita esponenziale rispetto agli 1,4 trilioni di dodici mesi prima. Non solo: all’industria dei fondi hedge che parla gaelico fan capo il 43% di tutti i fondi mondiali, e il 63% di quelli europei, impiegando 11mila lavoratori in più di 10mila società. Una tassazione favorevole e una burocrazia decisamente snella sono i due ingredienti chiave dell’espansione del settore nella patria della birra Guinness. La crescita del settore, di recente, ha inoltre ricevuto un impulso enorme dall’approvazione, a fine 2010, della direttiva comunitaria sui fondi d’investimento non convenzionali che ha di fatto reso i paradisi fiscali, come ad esempio le Isole Vergini Britanniche, poco convenienti. E che ha creato un movimento di ri-domiciliazione, detto anche «onshoring» degli stessi da sedi tropicali, Seychelles o Isole Cayman, in direzione Dublino.
Il valore globale dei fondi domiciliati nel Paese, come si evince da un report della Banca centrale irlandese, è stato pari a 964 miliardi di euro nel 2010 – rispetto ai 748 miliardi di fine 2009 – mentre il totale degli asset gestiti da veicoli non irlandesi, nel Paese, ha toccato quota 914 miliardi di euro.
A parte gli enormi guadagni di pochi specialisti, tuttavia, Dublino rischia di diventare un’Argentina europea. I cds (strumenti derivati che servono ad assicurarsi contro il rischio di fallimento di un asset) sui bond quinquennali irlandesi, in crescita costante da sei settimane, hanno toccato i 595 punti base, pericolosamente vicini ai 620 punti base di Buenos Aires nel 2001. Significa che assicurare 10 milioni di euro in obbligazioni irlandesi costa 595mila euro. C’è di più: nonostante il probabile primo ministro Enda Kenny, in settimana, abbia affermato di non vedere le condizioni per cui la nazione potrebbe non riuscire a ripagare il suo debito – il Fondo monetario internazionale stima che entro entro il 2013 toccherà il 125% del Pil – ieri uno report di Deutsche Bank ha lanciato l’allarme sul programma Elg (Eligible liabilities guarantee) del governo irlandese, che permette alle banche di emettere nuove obbligazioni coperte dalle passività ascrivibili come garanzia presso il Tesoro. In altre parole, bond aventi come collaterale debito, invece che attivi. Una mossa che, secondo la banca tedesca, potrebbe avere un impatto devastante per tutta l’Eurozona.
Nelle elezioni di oggi il Sinn Féin di Gerry Adams, partito di estrema sinistra noto per i suoi precedenti legami con i paramilitari dell’Ira nord-irlandese, potrebbe raddoppiare i seggi, passando da 5 a 10. Ma la partita, nonostante la crisi, si giocherà tutta all’interno del centro destra. Anche se Dublino potrebbe essere la prima capitale della zona Euro a vedere un cambio di maggioranza da quando è esplosa la crisi dei debiti sovrani.