Altro che brioche, il popolo vuole benzina

Altro che brioche, il popolo vuole benzina

Il punto di svolta in Libia è stato raggiunto, perché dopo le ultime proteste Gheddafi non potrà più fare concessioni al popolo. La rivolta è stata fomentata non solo dalle diseguaglianze sociali, ma anche dai problemi nella distribuzione delle rendite petrolifere. Nel 2009 il colonnello era a un passo dalla riforma nei principi di assegnazione delle rendite: evidentemente le timide concessioni del leader non hanno avuto effetto. Il malessere è molto più diffuso di quanto egli non potesse percepire. Da ora in avanti, qualsiasi concessione potrebbe essere vista dagli scontenti come una vittoria, stimolando ulteriormente la ribellione.

Il fenomeno può essere definito come la “Sindrome di Aceh”, dal nome della provincia indonesiana protagonista di trent’anni di guerra civile contro la centrale etnia javanese tra gli anni Settanta e il 2004. Nel tentativo di sedare la rivolta, oltre a un violentissimo impiego di forze, il governo centrale aumentò la porzione di rendite degli idrocarburi (estratti nella provincia) assegnate all’amministrazione locale. Alla fine, Aceh aveva accesso alla maggioranza delle rendite rispetto a quanto finiva nelle casse di Jakarta, senza che questo contribuisse minimamente alla stabilità politica.

La questione è fondamentale per la Libia, dove i ricavi degli idrocarburi costituiscono il 95 percento delle esportazioni, il 75 percento del bilancio statale e il 50 percento del Pil. Fino al 2009 era un fatto incontestabile che lo stato centrale gestisse tutte le scelte di spesa e investimento dipendenti dal petrolio. Percependo che qualcosa stava cambiando, all’inizio del 2009 Gheddafi ha sottoposto ai 468 “Congressi popolari di Base” l’approvazione di un documento in cui s’ipotizzava un sistema di rimesse dirette verso il “popolo”. Il piano è stato respinto; c’è chi sospetta anche un cambiamento d’idea da parte del dittatore, che avrebbe poi manovrato le votazioni. Adesso è troppo tardi per un nuovo ripensamento.

È per questo che in Libia l’area di principale scontento è rappresentata dalla Cirenaica, regione che da sola rappresenta la maggior parte delle esportazioni di gas e petrolio del Paese. Così come in molte altre regioni produttrici in tutto il mondo, il mancato accesso alle rendite estrattive stimola la protesta. In forme più o meno violente è successo nella provincia araba dell’Iran, il Kuzhestan; nel Delta del Niger in Nigeria; nei dipartimenti meridionali della Bolivia; nelle aree costiere dell’Angola. Con una costante: una volta iniziata, la rivolta è inarrestabile.

La scintilla della rivolta libica potrebbe essere stata scoccata nell’ambito stesso dei “Congressi popolari”, una sorta di soviet in cui si discutono risoluzioni decise dal governo. Non è un caso che le rivolte siano scoppiate a ridosso dell’ultima riunione, tenutasi dal 12 al 17 gennaio di quest’anno. Gheddafi si è avvicinato alla tornata di consultazioni annunciando l’azzeramento delle tasse sull’importazione di prodotti alimentari di base. Evidentemente, la decisione è servita a poco. All’interno del panorama politico libico esiste una seppur lieve demarcazione tra “conservatori” e “riformatori”, questi ultimi rappresentati in più istanze da Saif, figlio del colonnello. La sua relazione con il padre è estremamente altalenante: spesso Saif viene indicato come il successore designato, ma più volte Gheddafi ha usato le maniere forti per correggere uscite troppo “liberal” da parte dei mezzi d’informazione controllati da Saif. Il fatto che siamo a un punto di svolta è segnalato anche dal messaggio televisivo di Saif di ieri, in cui minacciava la repressione contro gli insorti. Non esistono più riformatori e conservatori, ma solo ribelli e status quo. Evidentemente, su “mandato del padre” Saif sta portando avanti un tentativo estremo di sedare la rivolta, cercando di attirare a sé i moderati, promettendo cambiamenti costituzionali.

Come in Egitto, la grande variabile è rappresentata dallo schieramento delle forze armate, per quanto in Libia siano molto meno forti. Il successo della rivolta nella terza città del paese, Bengasi, è stato dovuto anche alla decisione di alcuni reparti delle forze dell’ordine di schierarsi con gli insorti. Tutto questo crea un profilo di instabilità molto più imprevedibile rispetto a quanto sta succedendo in altri paesi. In Libia la “Fratellanza Mussulmana” è data come “dormiente”, ma è una delle possibilità per il dopo-Gheddafi. L’organizzazione è presente anche in Egitto, dove è tenuta sotto scacco dal potere militare. In Libia, mancando questo tipo di controllo, il fondamentalismo potrebbe trovare un terreno molto più fertile.

Sono state smentite le previsioni secondo cui il petrolio, in casi come questi, possa agire quale fattore di stabilità, perché viene impiegato dai dittatori per pagare il consenso. Comunque si faccia, i soldi del petrolio riescono a raggiungere solo una piccola parte della popolazione: per il resto, l’economia mal gestita si blocca sempre. Non è detto che dopo le rivoluzioni la situazione democratica migliori, perché gli interessi dei gruppi di potere, siano essi anche etnici e culturali, sono diretti all’accesso alle rendite. È dalla commistione tra militari, fondamentalismo e petrolio che nascerà il nuovo ordine del quadrante.
 

*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org

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