In una rivoluzione nazionalista come quella che si sta sviluppando in Egitto, il rischio è che il potere sia preso da fazioni organizzate estremiste, di qualsiasi tipo. Nel corso del tumulto sono i gruppi più coordinati che riescono a rimettere ordine nei processi del potere e a prendere i posti di comando. È per questo che non dobbiamo metter fretta al presidente Hosni Mubarak perché se ne vada. Il vecchio politico, per quanto moralmente indegno, deve rimanere incollato alla poltrona fino a che non abbia posto le condizioni per l’introduzione di un nuovo ordine, non estremista e non radicalista.
Quella egiziana non è una rivoluzione simile al 1989 europeo, perché non si dirige contro una potenza straniera. In quel caso a emergere dopo le sommosse sono stati gruppi politici nazionali che erano stati alla base stessa delle proteste. Lech Wałęsa in Polonia e Václav Havel in Cecoslovacchia avevano coordinato il dissenso e poi hanno preso il potere.
In Egitto, dove la rivoluzione è molto più anarchica, una svolta democratico-liberale è tutt’altro che probabile. Nel corso di sommosse simili, la storia dimostra come gli eventi possano prendere pieghe assai poco desiderabili: si va dal Terrore dopo la Rivoluzione Francese, al bolscevismo in Russia, all’emersione dei Pasdaran dopo la cacciata dello Scià in Iran nel 1979.
I gruppi pronti a prendere il potere in Egitto sono diversi. Se vogliamo dar retta alla vulgata religiosa, potremmo puntare sulla fratellanza islamica. Dalla fondazione il suo scopo è l’introduzione di uno Stato islamico tramite riforme progressive (come degli “islamodemocratici”). A piazza Tahir al Cairo sono dietro ad alcuni gazebo che offrono viveri, acqua e cure mediche, nello stile di Hamas. Altrimenti, fette di potere potrebbero essere conquistate dalle baltagiya, una sorta di bande organizzate basate nei quartieri più poveri. Sono formalmente islamiste, ma vengono ritenute ai fatti non ideologiche.
Per abbandonare la via religiosa, possiamo puntare su tutta una serie di apparati che ruota attorno alla poltrona presidenziale. La Polizia (al shurta) dipende dal ministero dell’Interno e più o meno risponde a Mubarak. I servizi di sicurezza centrali (amn al markazi), invece, non dipendono dal ministero dell’Interno ed erano considerati i pretoriani di Mubarak. Oltre a polizia e servizi di sicurezza, ci sono anche i militari che, come noto, vengono gestiti e si percepiscono come una sorta di Stato nello Stato.
In questo contesto, possiamo comprendere meglio le dinamiche che si stanno sviluppando nel Paese. I militari hanno un doppio ruolo: controllano le piazze, e nel contempo garantiscono ai cittadini il diritto di protestare. Lo fanno per far pressione su Mubarak verso le riforme e conquistare potere. Mubarak sa che se perde i militari, perde definitivamente la situazione sociale.
La risposta del presidente, per ora, è stata quella di nominare suo vice Omar Suleiman, che era direttore dei servizi segreti. Si tratta di una mossa per tentare una mediazione con i militari, visto che a essi rispondono i servizi. Facendo questo, Mubarak garantisce le riforme alla piazza e all’esercito; la piazza e l’esercito sanno che se Mubarak se ne va, gli estremisti potrebbero prendere il potere. Si è creato così un gioco di equilibri molto sottili, in cui l’errore più grave della comunità internazionale sarebbe quello di spingere Mubarak ad andarsene ora. Sarebbe il caos. L’alternativa è un processo più lungo di democratizzazione, con un ruolo più centrale per i militari. Per come si stanno mettendo le cose, il rapporto tra democrazia ed esercito sarà più di tipo turco, che iraniano. È meglio di niente.
*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org