Gli 80 miliardi che mancano al “patto con gli italiani”

Gli 80 miliardi che mancano al “patto con gli italiani”

L’altro giorno, in conferenza stampa con Giulio Tremonti, Silvio Berlusconi si è lamentato che il paese cresce poco «anche perché abbiamo il 50% di infrastrutture in meno di Francia e Germania», i nostri cugini rivali. È un divario che pesa. Secondo la Camera di commercio di Milano ogni anno le nostre piccole imprese pagano fino a 3mila euro a testa in extracosti da inquinamento e traffico. Mentre il costo di una logistica monca e non integrata penalizza per 40 miliardi la nostra economia

Eppure, esattamente 10 anni fa, il Cavaliere andò in tv a Porta a Porta e sulla lavagna di Bruno Vespa disegnò una mappa colorata piena di strade, ponti, trafori e ferrovie che, nel giro di pochi anni, avrebbero dovuto cambiare il volto del paese. Quel gigantismo visionario finì pochi mesi dopo dentro la legge 443 del 2001, meglio nota come Legge Obiettivo, nata per definire procedure e modalità di finanziamento per la realizzazione delle infrastrutture strategiche.
Il Cipe, sotto Natale, con la delibera 121, approva un elencone di grandi opere: 250 interventi del valore di oltre125 miliardi di euro, coperti per 43,2 con risorse disponibili e da coprire per 82,6 con risorse da raccogliere attraverso nuovi stanziamenti pubblici o l’intervento di “partner” privati. Diciannove di questi interventi vengono definiti “opere prioritarie”.

C’è il Ponte sullo Stretto di Messina, l’autostrada Brescia-Milano, il passante di Mestre, la Nuova Romea Commerciale, l’Autostrada Ravenna-Venezia, il Tibre (Tirreno-Brennero) autostradale e ferroviario, il quadrilatero Umbria-Marche, la solita Salerno-Reggio Calabria, la Palermo-Messina, i valichi di Frejus, Brennero e Sempione, l’Alta Velocità Lione-Torino-Trieste, Milano-Genova, e Salerno-Reggio, i nodi urbani di Roma, Napoli e Bari, il “Mose” di Venezia e le Reti idriche del Mezzogiorno. Nel famoso contratto con gli italiani, firmato sempre a casa Vespa nella primavera 2001, Berlusconi promette solennemente che avrebbe portato a compimento, entro il 2006, almeno il 40% di quelle opere. Dieci anni dopo siamo ancora inchiodati al 25% dei lotti. A dirlo, sono i documenti Cipe.

Negli anni, ovviamente, il libro dei sogni cresce e si sgonfia a fisarmonica. Su pressione degli enti locali vengono inserite, o tolte, nuove opere e cambiate alcune procedure. Sull’elencone da una prima sfrondata il ministro Di Pietro, con la delibera 130 del 2006. Poi arriva la doppia verifica sullo stato di attuazione del programma (costi e coperture) del successore Matteoli (delibera Cipe 69 del 4 luglio 2008 e delibera 10 del 6 marzo 2009). Fino all’ottavo aggiornamento Pis del ministero (settembre 2010), che individua finalmente quelle opere (28) da avviare o completare entro il 2013 e quelle il cui avvio, invece, viene realisticamente posticipato a dopo il 2020. Fissare una gerarchia è vitale perché nel frattempo, nel piano, sono rimaste 162 infrastrutture definite strategiche per la cifra monstre di 231,4 miliardi di euro. Secondo le tabelle del ministero, infatti, le risorse attivate o attivabili a oggi non superano gli 89 miliardi, dunque ne mancano 142.

Ma, soprattutto, delle famose 162 opere risultano completamente finanziate solo 36, cioè il 22% del totale. Mentre il 28% (pari a 45 infrastrutture), non dispone di alcun finanziamento (o per un valore simbolico del 5%). Di qui la scrematura obbligata. Che però si rivela un’altra volta fittizia, perché per i 28 interventi prioritari inseriti nell’allegato infrastrutture alla finanziaria 2011 su cui il governo sceglie di far confluire fondi e sforzi amministrativi, attualmente risultano disponibili “solo” 39,1 miliardi (di cui 18,7 privati) sul totale di 110,4. Alla fine di questa lunga gincana decennale, insomma, con le opere prioritarie della legge obiettivo passate da 19 a 9, poi salite a 162 e poi ancora tornate a 28, il piatto piange.

Certo qualche opera ha tagliato il traguardo – il passante di Mestre e l’alta velocità Torino-Napoli – ma infrastrutture come la Torino-Lione, il Brennero, l’asse est-ovest dell’alta velocità, il terzo valico o la Salerno-Reggio Calabria sono fortemente in ritardo rispetto alla tabella di marcia o addirittura impantanate alla ricerca del piano finanziario e del progetto (il Frejus). «In assenza di un pacchetto di misure per la crescita dell’economia che rilanci anche questo settore, rendendo più snelle le procedure e integrando la dotazione finanziaria – ha scritto Giorgio Santilli su Il Sole24Ore – il 2011 sarà l’anno in cui la crisi dei lavori pubblici si radicalizzerà e si abbatterà sul sistema delle imprese». Si parla, negli ultimi giorni, di frustata economica, ma per il Cresme il 20% delle aziende di costruzioni è a rischio chiusura. Il piano delle piccole opere parzialmente varato nel 2010 dal Cipe è sempre al palo, mentre l’Anas ha opere ferme prima dell’apertura del cantiere per 2,6 miliardi. «Complessivamente — conferma il Rapporto Oti Nordovest 2011 — il 2010 è stato un anno difficile sul fronte del rilancio infrastrutturale del Paese».

Le sedute Cipe «hanno visto l’approvazione di pochi progetti infrastrutturali e una limitata assegnazione di contributi pubblici». Secondo dati Ance, degli 11,3 miliardi di euro programmati dal Cipe nel giugno 2009 con il Piano Fas/legge obiettivo, solo il 2,7% si è trasformato in gare per lavori. «A un’intensa attività di programmazione non è seguita un’analoga capacità di finalizzare i processi e non si sono fatti passi significativi in termini di avanzamento finanziario, progettuale e realizzativo». Gli stanziamenti statali per opere infrastrutturali sono stati tagliati del 23% nel biennio 2009-2010, e di un altro 14% nel 2011. Anche per le opere già cantierate a lotti il piatto piange. Per l’AV Treviglio-Brescia c’è una copertura da 1,1 miliardi ma mancano 919 milioni, da stanziare a inizio 2012; per il Terzo Valico Genova-Milano ci sono 720 milioni e ne mancano 5.480; per la galleria del Brennero ci sono 728 milioni, ne mancano 3.412, di cui 2.726 già fra un anno e via elencando.

Inoltre, come spiega il docente di economia dei trasporti del Politecnico di Milano, Marco Ponti, su Lavoce.info, causa una recente modifica legislativa d’ora in poi non si procederà per “lotti funzionali” (le parti di opera che, pur non completandola, hanno una qualche utilità: per esempio, il tratto percorribile di una linea ferroviaria o di un’autostrada), ma per “lotti costruttivi” (la costruzione di tratti che possono finire in aperta campagna ed essere comunque appaltati anche se l’opera non sarà mai finita). Con una miriade di cantieri aperti senza copertura, l’Italia rischia di diventare la terra delle incompiute.
Il ministro Matteoli recentemente ha scritto al Sole per dire che non è vero che è tutto fermo. «Abbiamo continuato a finanziare il Mose, ulteriori lotti della Salerno-Reggio Calabria, perfezionato il meccanismo di finanziamento incrociato per il Brennero, la prima tranche di interventi di piccola e piccolissima dimensione nel Sud, il contratto di servizio di media e lunga percorrenza di Trenitalia, individuato e applicato la logica costruttiva alla realizzazione delle reti Ten-T. Contestualmente, il governo ha avviato la Brebemi, la Pedemontana lombarda, la Cisa, la Ragusa-Catania, la Pontina, la Campogalliano-Sassuolo, la connessione autostradale con il Porto di Ancona: tutti finanziamenti di parte privata».

Eppure proprio sul ruolo dei privati si segnala il secondo flop decennale da parte paradossalmente dell’imprenditore Berlusconi. Al netto delle poche risorse pubbliche a disposizione, non si sono nemmeno create quelle condizioni di certezza burocratica per attirare capitale di rischio. Cioè riforme a costo zero. «Per rilanciare le infrastrutture servono soprattutto norme chiare e definitive», dice da tempo Alberto Meomartini, presidente di Assolombarda. «Solo con regole certe, trasparenti e stabili nel tempo, indispensabili nel caso di investimenti che producono una redditività differita, è possibile indirizzare i capitali privati verso le grandi opere. Oggi nel mondo c’è molta liquidità. Bisogna però saperla conquistare». Invece, Brunetta o non Brunetta, ancora oggi ci vogliono, in media, 26 firme da parte di 11 enti diversi per completare l’iter procedurale di approvazione di un progetto.
Roberto Castelli l’altro giorno da Monza ha paventato ritardi sulle grandi opere, minacciando di commissariare per grandi infrastrutture del Nord per velocizzare gli iter e sbloccare i finanziamenti.

Nel maxi appalto di Pedemontana da 2,3 miliardi, la più grande infrastruttura in costruzione in Europa, sono in pista tutti i grandi, divisi su più cordate: Impregilo, Ccc, Astaldi, Pizzarotti; Salini Vanini, Ghella e Todini in un’altra; Tecnimont, Saipem e Condotte in un’altra ancora; infine Sacyr. Ma restano incognite sulla cosiddetta “bancabilità dei progetti”: gli investimenti in infrastrutture nel nostro Paese non assicurano cioè la remunerazione dei capitali, soprattutto per via dei bassi livelli di tariffazione esistenti in tutti i comparti dei trasporti.
Non bastasse, gli imprenditori piemontesi scrivono a Matteoli per denunciare i ritardi e chiedere un incontro urgente. Ci sono timori per la possibile cancellazione dei finanziamenti previsti da Bruxelles sull’Alta velocità Torino-Lione. Mauro Moretti non considera prioritaria l’opera. Picchia duro Gianfranco Carbonato, capo degli industriali di Torino: «È inaccettabile, ora parli il governo». Che ha smentito la rinuncia, dice di voler andare avanti. Ma i dubbi restano tutti, a dieci anni dalla lavagna di Bruno Vespa…  

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