Huffington Post, la «partecipazione» vale 315 milioni

Huffington Post, la «partecipazione» vale 315 milioni

Due anni fa, quando l’agenzia economica online Bloomberg decise di acquistare la gloriosa testata economica Business Week, sborsò 5 milioni di dollari, una miseria: da allora la testata cambiò in Bloomberg – BusinessWeek e fu aggregata all’impero mediatico del sindaco di New York. L’anno scorso, quando il sito web The Daily Beast acquistò la storica testata Newsweek la cifra pattuita per lo scambio fu anche minore: un dollaro. Anche in questo caso era il mondo della rete che si appropriava di un brand storico e lo affidava alle cure di una nota giornalista – Tina Brown – che aveva dimostrato di saper gestire con perizia un sito di informazione come The Daily Beast, dove gossip e glamour si fondono in un prodotto piuttosto frizzante. Nasceva così The Newsweek Daily Beast Company, un altro segnale che il mondo digitale sta rapidamente inghiottendo quello della carta stampata.

Nei giorni scorsi il gigante digitale Aol per rilanciare la propria strategia non ha acquistato un giornale cartaceo, ma un sito web come l’Huffington Post. Ma per completare l’acquisizione non gli è bastato un dollaro. Al contrario, ha dovuto sborsare 315 milioni di dollari. Troppi? Certo, una bella somma, ma “solo” dieci volte il fatturato realizzato dal sito di Arianna Huffington nel 2010, cinque volte quello previsto nel 2011. Per Aol è una scommessa. Per Arianna Huffington è il segno che l’impresa avviata cinque anni fa, bersagliata dall’ironia dei colleghi della carta stampata, è stata un successo. Per il mondo dei media è un’ulteriore indicazione che l’editoria si sta spostando rapidamente verso la rete. Ma partiamo dall’inizio, per capire che cosa sta accadendo.

Quando fonda il sito che porta il suo nome Arianna Huffington, una giornalista di origine greca che anni fa è stata candidata alla poltrona di governatore della California ed è ormai una presenza costante sulle tv americane, ha una idea chiara in testa: costruire un sito che insieme sia un punto di riferimento dei progressisti americani, dove notizie, commenti e partecipazione si fondano insieme. Il risultato è un sito “aggregatore” che da una parte segnala le notizie, le inchieste, i commenti e i filmati più rilevanti linkando direttamente i siti originari. Dall’altra fornisce ospitalità a migliaia di blogger, anche piuttosto noti, che pubblicano i loro commenti (gratis) sul sito. L’Huffington Post non solo offre al pubblico progressista un panorama continuamente aggiornato dei contenuti più rilevanti, ma li personalizza titolandoli a modo suo, reinterpretandoli, mostrando ai propri lettori gli aspetti più piccanti o quelli più controversi che magari i giornali americani – abituati alla separazione tra notizie e commenti – non mettono in evidenza in modo così esplicito. Con i suoi titoli l’Huffington Post “spiega” le notizie. In una certa misura svolge un ruolo di parassita rispetto all’editoria tradizionale, perché si basa in larga misura su contenuti elaborati da altri. Ma dall’altra aiuta i lettori a interpretare la realtà. Ma non fa solo questo. Le centinaia di blogger che scrivono sul sito offrono punti di vista, analisi e talvolta notizie su ogni settore della vita pubblica. Sono nomi noti, da Bernard Henry Levy a Anjelica Huston, sono politici e intellettuali, scrittori, artisti, gente comune.

Cinque anni fa la stampa americana ironizzava affermando che quello della Huffington era il “blog dei Vip”. Oggi alcuni commentatori notano con una punta di veleno che il grande talento della Huffington è fare lavorare le persone gratis. Non solo decine di personaggi del jet set, ma anche centinaia di cittadini comuni scrivono blog, talvolta si trasformano in citizen journalist e segnalano fatti di cronaca che la grande stampa ignora. E lo fanno gratis. C’è del vero in questa ironia. Nei social network e nel giornalismo partecipativo che si va imponendo nel mondo le aziende dominanti fanno profitti sull’attività gratuita dei cittadini. Succede anche su Facebook, che è stata valutata 50 miliardi di dollari perché quasi 600 milioni di persone frequentano le sue stanze virtuali foderate di linee di software, e all’interno di quelle stanze chiacchierano, si scambiano notizie ed emozioni.
Molti affermano che oggi Aol non abbia comprato l’Huffington Post, ma Arianna Huffington, la sua notorietà televisiva, la sua capacità di comunicatrice, soprattutto il suo istinto a creare il giusto mix tra news e comunicazione con i lettori. Sarà lei, con il brand che deriva dal suo nome, a integrare i diversi pezzi dell’universo dell’informazione che Aol sta componendo. È interessante elencare le acquisizioni che il gigante americano ha effettuato negli ultimi due anni.

Citando solo i più importanti si va da About me (un software per definire i profili degli utenti online) a Pictela, (una piattaforma per il marketing personalizzato online); da Go Viral (video digitali) a Thing Labs (che produce software per i social media); da Going (liste di eventi locali) a Patch.com, forse l’acquisizione più importante, grazie alla quale Aol sta sviluppando centinaia di siti iperlocali, in cittadine tra i 20 e i 50 mila abitanti, cercando di creare nuove reti di aggregazione sociale sul territorio: un investimento da quasi cento milioni di dollari che prevede l’assunzione di centinaia di cronisti.
Scorrendo l’elenco delle acquisizioni di Aol la strategia di lungo termine sembra chiara: creare una rete di piattaforme di informazione sparse sul territorio per costruire un’alternativa sia ai vecchi giornali torri d’avorio sia alle tradizionali tv generaliste.

Si tratta di una visione che punta sulla crescita dell’informazione capillare, legata al territorio, dove diventa ogni giorno più importante il ruolo delle comunità locali e della società civile. In questa visione i vecchi giornali al di sopra delle parti (ma sono mai davvero esistiti?) si stemperano in una serie di nuove attività partecipative dove i politici dialogano con gli elettori, la pubblica amministrazione apre i propri archivi per sottoporsi al giudizio della collettività, i cittadini comuni dicono la loro e offrono informazioni. Per fare questo, naturalmente, ci vogliono anche i giornalisti. Ma forse, come dimostra Arianna Huffington, devono imparare a cambiare pelle.