Il golpe militare che ha provocato l’uscita di Mubarak dall’Egitto viene festeggiato da molti commentatori occidentali come l’inizio di una nuova, grande epoca democratica nel Paese, che potrebbe aprire la strada a tante altre “rivoluzioni” dello stesso tipo in tutto il mondo arabo – posto, ovviamente, che popoli e nazioni della regione di tali rivoluzioni sentano la necessità. Tra tutti gli esempi che si sono affacciati tra i media, un servizio della televisione Zdf sugli studenti tedeschi al Cairo è stata la rappresentazione più estrema del sentimento euro-americano nei confronti dei singulti libertari di piazza Tahir. Un ragazzone biondo, forse troppo in là con gli anni per incarnare davvero lo stereotipo dello studente, camminava abbracciato a un egiziano che pagava trenta centimetri di altezza. Il tedescone era estasiato dalle manifestazioni e continuava a ripetere che: «per me, la cosa più importante, è essere qui oggi, un giorno in cui si celebra davvero una rivoluzione. Sì, potrò dire di aver partecipato a una rivoluzione».
L’incertezza della casta militare. È tipico del positivismo occidentale immaginare il sillogismo dittatura-porta-a-rivoluzione-che-porta-a-libertà. In realtà le cose potrebbero non stare così. La chiave del potere non è detenuta oggi da un’opposizione democratica o democratizzante, ma di una casta militare il cui orientamento è ancora incerto, e bascula tra i punti di vista di un paio di personaggi in cima a essa. L’articolo di Arturo Varvelli su queste pagine ha espresso bene l’incertezza della situazione (“Egitto, il pericolo di un esercito diviso”, 12 febbraio 2011). Il presidente americano Obama, tutto preso a recuperare una serie impressionante di figuracce inanellate dalla sua intelligence, si è affrettato a ricordare che «i militari hanno un ruolo nella transizione». La spiegazione è che le forze armate sono l’unico soggetto in grado di tenere insieme le fila del Paese, speriamo che portino alla democrazia. Magari gli Usa, nel frattempo, spereranno di individuare e sostenere chi, tra i militari, presenta le migliori garanzie: Obama ha promesso “assistenza” alla formazione di un’opposizione organizzata.
L’illusione dell’Occidente. Ma l’idea che la situazione, da sé, possa portare alla democrazia, è un’illusione occidentale. Lo scenario è simile a quello dei primi anni Novanta in molti Paesi: ci sono problemi economici e rischi per la stabilità sociale, ivi inclusa la presenza di gruppi violenti. L’elemento più preoccupante è quello delle guerre mediorientali, e in particolare dell’Afghanistan. Vent’anni fa i reduci del conflitto contro i sovietici tornarono a casa, dove non trovarono lavoro, ma solo tanta altra gente delusa dalla situazione politica. Da questo iniziò un periodo di violenze in tutto il Maghreb: solo nel 1993, in Egitto sono morte 1.106 persone per attacchi terroristici; nel 1997 nel massacro di Luxor 62 turisti hanno perso la vita. Tutto questo succedeva durante la feroce guerra civile algerina, dal 1991 al 2002, con centinaia di migliaia di morti.
Attenti a gioire: adesso in Egitto e in tutto il mondo arabo inizia il periodo di maggior rischio. Adesso l’economia non è più in crisi: è del tutto bloccata. Adesso stanno tornando i reduci dai combattimenti nell’ultimo conflitto afghano. Troppo spesso le festose rivoluzioni hanno lasciato spazio ai colpi di pistola, semplicemente perché sono tante e tumultuose le istanze che si agitano nelle piazze. Chi non si sente rappresentato, illuso da una rivoluzione per lui fallita, è pronto ad armarsi e protestare di nuovo.
L’Egitto, per dimensioni e peso politico, è un obiettivo irrinunciabile per la Casa Bianca. Farà di tutto per evitare che fazioni religiosamente motivate, come i Fratelli Musulmani, salgano al potere senza un adeguato contraltare politico. Se sarà democrazia, sarà tenuta in scacco dai militari. È così che dobbiamo intendere il sostegno americano alla “transizione militare”. L’Egitto peggiore per gli Usa è stato quello che ha avuto pretese egemoniche nel quadrante, cercando prima la formazione di una “Repubblica Araba Unita” con la Siria, fino al conflitto dello Yom Kippur nel 1973. Per Washington, le pretese di controllo esercitate dall’Iran sono già sufficienti a tenere impegnata l’attenzione degli apparati di sicurezza; lo spauracchio di un asse Cairo-Hamas sarebbe un incubo.
*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org