«Qualche battuta, nulla di più». Chi era in Mediobanca stamane, all’incontro riservato dell’Aspen Institute, dice che della questione-Libia si è parlato, sì, ma a mezza bocca e con un certo imbarazzo. Del resto il tavolo scotta, il socio libico è ingombrante e sta proprio nel cuore del capitalismo italiano. Sembrano passati secoli, ma sono in realtà pochi mesi, da quando Alessandro Profumo spiegava che i possibili investimenti in Libia sono compresi fra «350 e 600 miliardi di dollari». In giugno con queste parole l’amministratore delegato di UniCredit aveva ringalluzzito gli imprenditori italiani, soprattutto in vista del vertice italo-libico di fine estate.
A distanza di otto mesi, sono cambiate diverse faccende. Profumo non è più al vertice di Piazza Cordusio, caduto proprio sulla scelta di aprire troppo alla Banca centrale di Tripoli e al fondo sovrano Libyan investiment authority. Il potere del Colonnello Muammar Gheddafi vacilla sempre di più e con esso gli oltre 4 miliardi di investimenti libici in Italia. Con Gheddafi trema anche il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, «l’amico italiano» del Colonnello.
L’ultimo rapporto sulla Libia è quello del Sovereign wealth fund institute, il maggiore ente internazionale di ricerca sui fondi sovrani, tratteggia gli interessi libici in Italia e viceversa. Ora, con lo spettro della guerra civile che aleggia sempre più minaccioso, potrebbero venir meno svariati accordi siglati negli ultimi anni. Di questo si è parlato tra le righe e nelle pause anche all’incontro dell’Aspen Institute che oggi si è svolto in via riservata a Milano, e che aveva tutt’altra agenda. Tutto il Gotha finanziario italiano era presente, da Emma Marcegaglia a Fabrizio Palenzona, passando per Corrado Passera. Facce tirate, pochi sorrisi e tanta preoccupazione per via delle partecipazioni libiche in Italia e viceversa, UniCredit su tutte. Fra 2,38 miliardi di euro di export, circa 10 di import e poco meno di 50 milioni di euro assicurati dal Sace, l’Italia è uno dei maggiori partner commerciali della Libia.
Il punto focale degli investimenti esteri di Muammar Gheddafi è il fondo sovrano Lia. Creato nel 2006 grazie ai surplus petroliferi – la Libia è il quarto produttore di oro nero in Africa con 1,8 milione di barili al giorno e riserve per 42 miliardi di barili – il veicolo ha una dotazione di base di circa 70 miliardi di dollari. Due le sue sussidiarie, il Libya Africa investment portfolio (Lap) e la Libyan Arab Foreign investment company (Lafico), già celebre per le partecipazioni nell’azionariato Fiat.
Non è difficile immaginare che il dossier più spinoso sia quello di UniCredit. Nel management del colosso ora guidato da Federico Ghizzoni il peso rilevante dei libici continua a essere importante. La Central bank of Libya di Farhat Omar Bengdara, ora al 4,613% di UniCredit, e la Libyan investiment authority, attualmente al 2,594% di Piazza Cordusio, sono un punto focale della banca. L’incertezza sulla stabilità politica di Tripoli può incidere sulla governance dell’istituto di credito italiano? In estate i principali detrattori della presenza libica erano state le fondazioni, capeggiate dalla CariVerona di Paolo Biasi e dalla Lega Nord. Le crociate portate avanti in difesa dell’italianità di UniCredit si potrebbero quindi riproporre nelle prossime settimane, nel caso di un’escalation di violenze in Libia.
Non c’è solo la banca di Ghizzoni negli interessi libici. Fiat, Finmeccanica, Juventus, Mediobanca, Tamoil: il business del fondo sovrano spazia dall’automotive al calcio, passando per le grandi opere. Storico è il rapporto fra Tripoli e Torino. Il primissimo investimento è datato 1976, quando Lafico entrò in Fiat con il 15%. Ne uscì nel 1986 con una plusvalenza da 2,6 miliardi di dollari, salvo poi rientrare nel 2000 con una quota del 2%. Ininterrotta invece la relazione fra Gheddafi e la Juventus. La Lafico oggi detiene il 7,502% della Vecchia signora, unico agente esterno alla famiglia Agnelli sopra quota 2%. Diverso il rapporto con Mediobanca. Cesare Geronzi, ex presidente di Piazzetta Cuccia ora a Generali, nel febbraio 2009 siglò un accordo preliminare per la creazione di un joint fund da 500 milioni di dollari. Quattro i segmenti d’investimento per il fondo, attivo in entrambi i Paesi: edile, farmaceutico, information technology e real estate. Del resto, il banchiere aveva ricordato che «I migliori azionisti che abbia mai avuto nel corso del tempo sono stati i libici. Non posso dire nulla di male», proprio nei giorni più bui di Profumo.
C’è poi Finmeccanica. La Lya ha una partecipazione del 2,02% nella società di Pier Francesco Guarguaglini e sono sempre stati molti elevati i rapporti fra Tripoli e Piazza Montegrappa. A tal punto che in estate Finmek aveva firmato un accordo per il potenziamento tecnologico della ferrovia compresa fra Sirth e Benghazi, una commessa da 247 milioni di euro. Infine, Tamoil. La compagnia petrolifera Tamoil è infatti detenuta al 45 per cento dall’olandese Olinvest, controllata da Lafico.
Non sono da meno, come riporta il Swd institute, gli affari italiani in Libia. In virtù del meeting fra Berlusconi e Gheddafi, sono stati sottoscritti diversi memorandum d’intesa per appalti logistici e infrastrutturali. Uno dei più importanti è quello dell’autostrada libica Rass Ajdir-Imsaad, una lingua d’asfalto da oltre 1.700 chilometri che fa parte di un progetto ventennale da 5 miliardi di dollari secondo le fonti di stampa libiche. A fine agosto il ministro dei Trasporti Altero Matteoli si era impegnato a trovare dei contractor italiani per portare a compimento l’opera. L’onnipresente Impregilo non si era tirata indietro, come nemmeno Astaldi.
Sul versante energetico è molto ampia la presenza di Eni. La società di Paolo Scaroni ha fatto di Tripoli uno dei suoi punti nevralgici del Mediterraneo. In estate il numero uno del Cane a sei zampe, Paolo Scaroni, proprio prima del vertice italo-libico, aveva ricordato che in cantiere c’erano oltre 25 miliardi di dollari di investimenti. Usare il tempo passato è d’obbligo dato che, se le proteste di piazza sfociassero in una guerra civile, per Eni la presenza nel Paese potrebbe essere compromessa per qualche tempo.
I morti in piazza a Tripoli e Benghazi non devono far dormire sonni tranquilli a Berlusconi. Sebbene l’ambasciatore libico in Italia, Abdulhafed Gaddur, nello scorso agosto precisò che Tripoli non partecipa «a nessuna delle aziende di Berlusconi», è indiscutibile che Gheddafi sia un alleato importante. Il Trattato d’amicizia Italia-Libia dello scorso 30 agosto si era chiuso con un arrivederci. Forse avrebbero dovuto dirsi addio.