Silvano Moffa resuscita Maurizio Sacconi. Il parlamentare Responsabile, presidente della Commissione Lavoro della Camera, è impegnato da giorni nella stesura di una proposta di legge che farà discutere: una serie di norme destinate a ridefinire (meglio, ostacolare) il diritto di sciopero. Un testo singolarmente simile a quello già presentato in pompa magna dal ministro del Lavoro due anni fa. Trasmesso a Palazzo Madama. E lì giacente da diversi mesi.
Con una differenza: il ddl di Sacconi si limitava a riformare il diritto di sciopero nel comparto dei trasporti. Quello di Moffa si estende anche a tutti gli altri settori.
«È chiaro – racconta Giorgio Airaudo dirigente della Fiom – che la linea di pensiero dietro a questa proposta di legge trova forza proprio in quello che è successo a Mirafiori. Qualcuno è convinto che per uscire dalla crisi si possa passare sopra alle libertà personali».
Due deleghe legislative per l’Esecutivo. Due articoli in tutto. Nel primo, l’ex portavoce di Pino Rauti autorizza il Governo a emanare uno o più decreti «per disciplinare le materie della rappresentanza delle organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro». Ma è nella seconda parte del testo, che Moffa introduce il concetto di «rappresentatività sindacale» (ricalcando in maniera quasi identica, peraltro, il ddl del ministro Sacconi). Una delega al Governo «per adottare uno o più decreti volti a disciplinare l’esercizio del diritto di sciopero». In chiave stringente, ovviamente.
Se il provvedimento venisse approvato, si tratterebbe di una svolta epocale. Destinata a modificare profondamente la situazione esistente. La proposta di legge fissa dei paletti: titolari del diritto di sciopero rimarranno solo le sigle «complessivamente dotate, a livello di settore, di un grado di rappresentatività superiore al cinquanta per cento». In poche parole, esclusi settori marginali, nessuno.
Cancellato il diritto di sciopero? Non proprio. Ma per astenersi dal lavoro diventerà obbligatorio ricorrere a una consultazione. Moffa chiarisce: le parti sociali che non raggiungono il cinquanta per cento – ma rappresentano comunque più del venti per cento dei lavoratori – potranno indire un referendum preventivo. Lo sciopero sarà legittimo solo in caso di voto favorevole da parte del 30 per cento dei lavoratori interessati. Un limite invalicabile, di fatto, per gli scioperi spontanei. «Che molto spesso – spiega Airaudo – sono quelli legati ai problemi più importanti».
Il testo proposto da Moffa si occupa anche dei servizi pubblici essenziali. In questo caso, ogni lavoratore avrà l’obbligo di dichiarare preventivamente la sua adesione allo sciopero. Particolarmente interessante, poi, la previsione della serrata virtuale. «Una manifestazione di protesta con garanzia dello svolgimento della prestazione lavorativa» obbligatoria per determinate categorie professionali. Ci sarà chi potrà incrociare le braccia liberamente, insomma. Ma senza astenersi dal lavoro.
Chiudono la proposta di legge le procedure per anticipare la revoca dello sciopero e la semplificazione delle regole relative agli intervalli minimi tra una proclamazione e la successiva.
Rispetto al ddl di Sacconi, manca del tutto la previsione di un impianto di sanzioni (il cui onere di riscossione era stato previsto a carico di Equitalia e non più dei datori di lavoro). In compenso, viene specificato con precisione il tempo necessario per approvare i decreti. Secondo la proposta di Silvano Moffa, il ministro del Lavoro convocherà le parti sociali per trovare un’intesa entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge. Per trovare un accordo ci sono sei mesi di tempo. Scaduto il termine, il Governo procederà comunque «nell’esercizio della delega».
Resta un dubbio. Perché un disegno di legge presentato dal Governo al Senato viene riproposto alla Camera – in maniera molto simile – da un parlamentare? La risposta potrebbe arrivare con il prossimo rimpasto dell’Esecutivo. E con la poltrona da sottosegretario che Silvano Moffa potrebbe presto occupare. Un’ipotesi che dall’entourage di Sacconi smentiscono con convinzione. «Non c’è alcun accordo tra il presidente della commissione Lavoro e il Governo – tagliano corto – Ogni deputato è libero di presentare le proposte di legge che vuole».