La bandiera è di Formigoni e la gestisce lui

La bandiera è di Formigoni e la gestisce lui

Il signor Alessandro Storti è un lombardo tranquillo. Fa l’amministratore di beni immobili, ha 36 anni, una moglie e due figli e ama la bandiera. In particolare quella della sua regione, verde e con la rosa camuna in bianco. Un simbolo che svolazza ovunque, a Milano e dintorni, e che i forestieri a volte chiamano «quadrifoglio». Ma che, in realtà, stilizza uno dei più ricorrenti segni grafici tra i graffiti rupestri della Valcamonica. E che ha padri nobili del disegno e del design tra chi l’ha riprogettata nel 1975: Pino Tovaglia, Bob Noorda, Roberto Sambonet e Bruno Munari.

Il signor Storti vuole utilizzare la bandiera. Riprodurla su delle magliette (e forse – ammette a Linkiesta – anche in politica). Si informa sul sito della Regione Lombardia e trova con disappunto regole molto restrittive sul «marchio». Decide si scrivere all’ente guidato da Roberto Formigoni. Sezione competente. «Gentile Direttrice – esordisce – desidero porLe un quesito relativo all’uso della bandiera lombarda. Ho letto sul portale della Direzione Cultura che l’uso è precluso salvo consenso dell’Ente. Immagino che tale limitazione riguardi esclusivamente l’utilizzo del vero e proprio logo, nella versione attuale quadrata con bordi smussati e in foggia tridimensionale, con la scritta Regione Lombardia sottostante. Immagino invece che la limitazione non possa riferirsi alla produzione e all’uso di bandiere o di disegni di bandiere senza esplicito riferimento alla Regione Lombardia. In altri termini: immagino di non dover chiedere il consenso dell’ente regionale per stampare magliette raffiguranti una bandiera con la rosa camuna bianca su fondo verde, di forma rettangolare “mossa” dal vento; è corretto?».

Immaginava male. Non era corretto. «Buongiorno – risponde solerte la voce della burocrazia – il marchio della Regione Lombardia è costituito da due elementi: 1) il logotipo, ovvero la scritta Regione Lombardia, 2) il simbolo, ovvero il quadrato con la Rosa Camuna. Entrambi sono parte integrante del nostro marchio e sono stati regolarmente registrati come elementi di proprietà di Regione Lombardia. Per questa ragione, né il nostro marchio né uno qualsiasi degli elementi che lo compongono possono essere utilizzati senza previo consenso. Le confermo quindi quanto scritto sul nostro portale in riferimento alla possibilità di usare il marchio solo in caso di patrocinio, finanziamento o sponsorizzazione dell’iniziativa da parte di Regione Lombardia».

Il signor Storti non ci sta, vuole almeno il gol della bandiera e controreplica con una lettera lunghissima che, per amor di sintesi, qui non possiamo riprodurre integralmente. Sostanzialmente sostiene di aver acquistato una felpa di nota marca (Robe di Kappa) che la riproduce. Ma questo è poco importante. Soprattutto – come ripete anche telefonicamente a Linkiesta – non sopporta che la bandiera, «la nostra bandiera, simbolo di una comunità territoriale di cittadini»,  sia utilizzata come proprietà privata di un Ente.
«La rosa camuna», si scalda, non rappresenta un consiglio d’amministrazione o un’assemblea di azionisti, ma identifica un popolo! Non è mica la M del McDonald’s! Una cosa è il marchio, un’altra la bandiera. O no? Un vessillo non può essere svilito a logo semicommerciale, specie in tempi di federalizzazione dello Stato».
Ma dal Palazzo la risposta stavolta è un po’ meno cordiale: «Buongiorno, le confermo l’impossibilità di utilizzare il simbolo della Regione Lombardia, sia sotto forma di marchio che sotto forma di bandiera, per la stampa di gadget, magliette, o qualsiasi altro uso non autorizzato dall’ente stesso. Saluti». Fine dei giochi. Al signor Storti non resta che sfogarsi sul suo blog.

La questione si fa politica e giuridica. In politica, niente accuse di liberismo berlusconiano. Anche nella rossa Toscana, per fare solo un esempio, l’uso del Pegaso è regolato da norme stringenti. Quanto al diritto, la bandiera (seppur usata ovunque in Lombardia) intanto non è mai stata proclamata ufficialmente bandiera. La Legge regionale 85 del 1975 la cita infatti («…una croce curvilinea argentea in campo verde inclinata in senso orario…») solo come «stemma». E poi a chiarire un po’ le idee ci pensa l’avvocato Andrea Maria Mazzaro, esperto del settore. Tanto che la rete di legali di cui fa parte, la M&M Counsel, ha elaborato un progetto di consulenza agli enti: Il Marchio della Pubblica Amministrazione, valore per il territorio, risorsa finanziaria per l’Ente.

«La materia è delicata e anche una virgola può cambiar molto – esordisce – ma le basi sono chiare. Il decreto legislativo 30/2005 sulla proprietà industriale vieta all’articolo 10 la registrazione di “segni contenenti simboli, emblemi e stemmi che rivestano un interesse pubblico”. Ma all’articolo 19, comma 3 prevede che “anche le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni possano ottenere registrazioni di marchio”».
«Questo articolo è stato poi recentemente ampliato, col decreto legislativo 131/2010: “Anche le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei Comuni possono ottenere registrazioni di un marchio, anche avente ad oggetto elementi grafici distintivi tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico e ambientale del relativo territorio; in quest’ultimo caso, i proventi derivanti dallo sfruttamento del marchio a fini commerciali, compreso quello effettuato mediante la concessione di licenze e per attività di merchandising, dovranno essere destinati al finanziamento delle attività istituzionali o alla copertura degli eventuali disavanzi pregressi dell’ente».
Così – come consiglia la brochure del network di avvocati e commercialisti di Mazzaro – il marchio può essere «valorizzato in termini finanziari attraverso gli strumenti della licenza. Può essere riprodotto su tazze, cappellini e gadget vari, rendendo riconoscibile la Città/Ente nel mondo. È possibile anche creare store ufficiali, in cui poter acquistare il merchandising, o distribuire e/o dare in licenza a terzi i prodotti affinché possano essere venduti, così da evitare qualsivoglia costo di gestione e ricevere una remunerazione in percentuale (royalty) sulle vendite».
Con buona pace del signor Storti, insomma, la bandiera lombarda appartiene a Formigoni.

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