Dieci anni fa a Torino il futuro dell’auto sembrava segnato, i conti Fiat erano in profondo rosso, nuovi modelli non erano previsti nell’immediato. C’era una diffusa sensazione che fosse stato un grandissimo errore non vendere a Daimler nel 2000, con i tedeschi pronti a pagare 20 mila miliardi di lire, secondo le voci di allora. Molti erano convinti, o rassegnati, che alla scadenza del 2004 si sarebbe trattato con General Motors per vendere Mirafiori: la fabbrica non avrebbe chiuso, ma dalle linee sarebbero uscite auto Fiat-Gm. Come era successo agli inizi degli anni Ottanta e degli anni Novanta, la casa automobilistica era in crisi e nessuno più scommetteva sulla sua capacità di una autonoma sopravvivenza in Italia. «In fondo il matrimonio tra la Fiat e Torino è durato cento anni. E cento anni per un matrimonio sono tanti!», disse l’avvocato Agnelli, che pure vedeva nella ventilata cessione dell’auto una sconfitta personale e una delusione cocente per tutta la famiglia.
Dieci anni dopo è sempre il futuro dell’auto italiana al centro dell’attenzione. Lo scenario è profondamente mutato, ma ancora una volta l’ipotesi di spostare la società oltre Atlantico suscita polemiche e indignazione. Il tabù della vendita dell’auto è tornato. L’ipotesi, esplicitata da Sergio Marchionne, che la futura sede del gruppo Fiat-Chrysler possa essere negli Usa, da una parte conferma il ruolo di “provocatore” spregiudicato che l’ad del Lingotto si è cucito addosso, e dall’altra contribuisce a approfondire le divisioni già esistenti. Modificando i termini del dibattito sul futuro di Fiat ed eliminando un ennesimo mito: quello dell’italianità del gruppo, intesa come un valore, un elemento di vantaggio a cui non si può rinunciare. Che in fondo al percorso immaginato da Marchionne ci sia la fusione tra le due case lo si era capito da tempo. Certo, i passaggi intermedi sono ancora numerosi, dalla restituzione dei prestiti governativi ricevuti da Chrysler, alla sua quotazione in Borsa, oltre a una robusta impennata delle vendite.
Unica tappa già centrata, questa sul versante italico, lo scorporo dal tre gennaio di camion e trattori in Fiat Industrial, mossa che il mercato azionario ha mostrato di gradire. D’altronde l’operazione era studiata per gli azionisti e l’ad Fiat è bravo a scaldare gli animi in Borsa. In questo ambito le truppe a lui contrarie non sembrano fare molti proseliti. Quindi si tratta di un percorso lungo e complesso e appare difficile esistano già oggi gli elementi per capire dove avrà sede il quartier generale del nuovo gruppo. Uno scenario probabile potrebbe essere quello delineato da John Elkann sabato 5 febbraio: una volta fatta l’integrazione con Chrysler ci saranno più centri direzionali nelle aree con una forte presenza di mercato: Torino, Detroit, Brasile e forse Asia.
Un’ipotesi suggestiva che, comunque, denota come il dibattito sia aperto. E se è probabile che una decisione non sia stata presa, è invece sicuro che un certo malessere verso il nostro Paese sia presente oggi, come prima. «Mirafiori è fondamentale per il progetto di Fabbrica Italia, ma in Italia si fa troppa politica» ha detto Marchionne nei giorni scorsi. «L’Italia digerisce tutto, la sua forza sta nella pieghevolezza degli uomini politici. E’ un materasso il sistema italiano, e noi torinesi ci siamo sentiti un po’ stranieri in patria proprio per questo: siamo una gente montanara» diceva Agnelli in un’intervista del 1982.
È essenziale che il gruppo automobilistico non deluda le aspettative suscitate, rispetti gli obiettivi fissati dal piano e giochi la sua partita a livello mondiale. Il duro confronto con i sindacati per i nuovi contratti a Pomigliano e Mirafiori, aveva come obiettivo la governabilità di un’azienda che ha il livello di utilizzo medio degli impianti più basso d’Europa, un problema che ha sempre attanagliato la casa automobilistica e che va risolto, nell’ipotesi che si voglia mantenere per gli impianti un ruolo centrale come realtà produttiva. La riscossa di Fiat in Europa parte da qui. E non basta, adeguare la produttività italiana a standard più ampi, saper produrre più auto, bisogna saperle vendere.
Qui, però, il percorso è tutto in salita. L’auto in Europa non va, negli Stati Uniti va abbastanza, in Brasile va a gonfie vele. Il gruppo Fiat ha chiuso il 2010 con perdite in Europa vicine a un miliardo di euro. La produzione di auto in Italia è scesa negli ultime tre anni da 900 a 600 mila unità. Un triennio orribile, da cui solo il titolo azionario è uscito indenne grazie anche allo spin-off avviato a inizio anno. A fine dicembre l’azione si è riportata ai livelli di tre anni prima, dopo aver toccato minimi preoccupanti nel 2008, allo scoppio della crisi. Per contro, Chrysler – che ha chiuso l’anno battendo gli obiettivi previsti, registrando un forte utile operativo – punta a tornare in utile nel 2011 e, soprattutto, ha messo a segno un forte aumento delle vendita a 1,6 milioni di esemplari. L’obiettivo per il prossimo anno è di arrivare a due milioni di auto che saliranno a tre milioni nel 2014.
E’ prioritario per Fiat riacquistare competitività in Europa, anche attraverso una nuova gamma di prodotti più equilibrata di quella attuale, più sbilanciata cioè verso prodotti di fascia alta. Il 2010 ha confermato il successo di Suv e Crossover. In Germania, il principale mercato europeo, i Suv, potrebbero rappresentare nei prossimi anni anche il 15 per cento del mercato. La Fiat deve superare due grandi sfide: riequilibrare la gamma dei prodotti e migliorare l’efficienza produttiva.
Al momento il gruppo è impegnato a cambiare il mix di automobili prodotte e aumentare il livello di saturazione degli impianti in Italia. Da qui la scelta di chiudere Termini Imerese e l’annuncio che a Mirafiori si produrrà una jeep destinata al mercato statunitense, oltre a modelli di fascia alta. Grazie a un investimento di oltre un miliardo di euro, usciranno dalle linee Suv e vetture dei segmenti C e D a marchio Alfa Romeo e Jeep. Oltre la metà delle macchine prodotte sarà destinata al mercato nordamericano. La riscossa di Fiat in Europa parte da qui. Nel complesso, le scelte intorno a Mirafiori sembrano comportare una svolta necessaria nell’industria automobilistica italiana: il nostro paese è in svantaggio competitivo sul contenimento dei costi rispetto a realtà dell’Est Europa e quindi occorre puntare su vetture dal più alto valore aggiunto.
Insomma tutto fa credere che nei prossimi mesi si dovrà anche rinunciare alla bella favola che vedeva nella 500 il cuore dell’operazione Fiat-Chrysler e con essa la vittoria della piccola utilitaria dai consumi ridotti sulle costose cilindrate statunitensi dai spropositati. Il simbolo della storia e dell’italianità del gruppo Fiat, l’utilitaria, non è la chiave di volta dell’operazione Fiat-Chrysler e rischia di sbiadire come la storia del Lingotto di fronte alle nuove sfide del mercato globale. Marchionne con le recenti iniziative a Pomigliano e Mirafiori ha fatto sapere che, a suo modo di vedere, il nostro sistema di relazioni industriali non è adeguato alle gestione di grandi impianti. L’idea va oltre il caso Fiat e investe il sistema industriale italiano e il suo nanismo. La sfida competitiva si gioca sulla capacità di mantenere in Italia il numero di imprese di grandi dimensioni esistenti. La prima della lista è proprio Fiat Auto.