La metafora sembra servita, visto che l’ideatore del nuovo Berlusconi – quello del fare, quello liberale, quello che con una scossa porterà l’Italia a crescere del 3% all’anno invece dello zero-virgola-quasiniente-per-cento degli ultimi anni – ama firmare i propri elzeviri come “Elefantino”. Effettivamente, sembra aver partorito un topolino, e anche alquanto rachitico.
Pare essersene accorto subito anche l’ideatore della “frustata” (preferisce, sembra, questo termine a quello di “scossa”), il quale ha ben pensato di mettere le mani avanti pubblicando su Il Foglio del 10 febbraio, ossia il giorno dopo l’annuncio delle misure, una chiara reprimenda a Giulio Tremonti, reo di non credere nella frustata e, inferiamo, non intenzionato a impartirla con la dovuta violenza alle gambe della giumenta Italia, che se non fosse per lo svogliato fantino, scatterebbe come un baleno.
Facile ironia? Fin troppo facile, infatti. Altro sembra impossibile fare a commento delle misure adottate dal Consiglio dei Ministri il 9 febbraio 2010; misure di cui la stampa si è già scordata mentre l’economia (quella che doveva scattare come una giumenta alla frustata del fantino) non se ne è nemmeno accorta. Se ci ritorniamo sopra, una settimana dopo, è solo per tre ragioni, tutte pedagogiche. (i) Perché queste esse illustrano, in corpore vili, la crassa incompetenza economica di questo governo; (ii) perché, allo stesso tempo, esemplificano una politica fatta di vacui proclami diretti, apparentemente, a un popolo di gonzi; (iii) perché l’irrilevanza, fors’anche il danno, che caratterizza queste misure parla, in assenza di ciò che sarebbe necessario fare e che, guarda caso, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ci ha ricordato il 14 febbraio per l’ennesima volta in molti anni.
Incompetenza, anzitutto. La scossa, secondo il governo, dovrebbe venire (oltre che dall’alterazione di una trentina di parole della costituzione) da un’insalata russa di piccoli provvedimenti marginali, quasi tutti di spesa e diretti alle attività più disparate. Dall’eterna banda larga, dove il ritardo italiano sul resto del mondo non verrà certo colmato con 100 miserabili milioni di euro, al solito piano casa (che la scossa debba realizzarsi attraverso una bolla edilizia?) alle eterne mance clientelari di cui i piani di spesa per il Sud regolarmente consistono. Voler anche solo far finta che paccottaglia del genere possa servire a invertire il processo di stagnazione iniziato da più di un decennio significa non avere nemmeno idea di cosa generi la crescita economica. Pretendere che gocce di spesa pubblica più o meno clientelare possano, tanto per dire, aumentare una produttività industriale ferma ad un decennio fa o alterare il funzionamento di trasporti e servizi sempre più simili a quelli egiziani, vuol dire credere agli elefanti che volano.
Una tale concezione da basso impero della crescita economica (spendiamo un po’ d’argent de poche, il popolo s’industrierà) fa il paio con la modifica del testo costituzionale. Esso ora include ovvietà quali «Le pubbliche funzioni sono al servizio del bene comune» (art. 97), mentre l’articolo 41 ora ci ricorda che non solo «L’attività economica privata è libera» (lo era dal 1946) ma anche che «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». Ridondanza semantica a parte – a cosa erano preposte le pubbliche funzioni sino all’altro giorno? Al danno comune? Cosa era proibito, sino all’altro giorno, che non fosse espressamente vietato dalla legge? – risalta l’idea legalista dell’economia secondo cui la realtà si adatta al proclama del legislatore.
Ad ascoltare la propaganda governativa basta solo affermare che le funzoni pubbliche devono operare per il bene comune perché tale obiettivo si realizzi. L’organizzazione concreta dei ministeri, i contratti di lavoro, gli orari, le mansioni, gli incentivi, le punizioni e via dicendo, non contano. Analogamente – nonostante non esista la minima evidenza che l’assenza della postilla tremontiana all’articolo 41 abbia mai bloccato alcuna iniziativa economica profittevole – il presidente del Consiglio ha dichiarato alla stampa che ora la Carta «ha la capacità di aprirsi all’innovazione». Si noti la confusione fra realtà economica e formalismo legale: nella retorica berlusconian-tremontiana il problema concreto dell’innovazione economica si risolve solo perché, ora, la Carta costituzionale dichiara che possiamo fare tutto quanto ci piaccia. Vedrete come, grazie a questa “apertura” della Carta, le (rarissime) imprese informatiche italiane diventeranno, in un battibaleno, tante piccole Google o anche solo Microsoft. Facile ironia? Sì, purtroppo!
Ma che altro dire di un governo che, dopo undici anni di stagnazione, continua a pensare che provvedimenti del genere possano generare crescita? Che altro dire d’un governo che non sembra neanche lontanamente immaginare che solo tagliando la spesa pubblica (cos’altro credono sia l’esempio della Germania invocato da Draghi?), riducendo e riformando la tassazione, liberalizzando servizi e professioni, riformando (per davvero, non per scherzo come ha fatto Gelmini) l’università, potrà esserci, fra qualche anno, qualche speranza di vera crescita?