Siamo vicini alla crisi petrolifera degli anni ’70 o alla prima Guerra del Golfo? Siamo tornati indietro all’estate 2008 o il mercato ha già scontato l’impatto del caos libico sul prezzo dell’oro nero? Sebbene, come afferma Paul Donovan, capo economista della banca elvetica Ubs, ormai la situazione mediorientale riguardi più i giornalisti che gli analisti finanziari, proprio questi ultimi sono protagonisti di una moltiplicazione di analisi e ricerche sull’unico tema che interessa le piazze finanziarie mondiali: quale sarà l’andamento del prezzo del petrolio?
Al momento in cui scriviamo, il future sul Brent ha toccato 113,3 dollari a barile, (+1,28 dollari rispetto a venerdì scorso) mentre il barile Wti vale 98,5 dollari, dunque sempre più vicino ai 100 dollari (+2% sui mercati asiatici oggi). Nella consueta ricerca mattutina, l’istituto britannico Barclays ipotizza due scenari. Il primo riguarda un rapido rally del greggio, che certamente spingerebbe al rialzo i prezzi al consumo sul breve periodo, ma non creerebbe problemi sul lungo termine, grazie ad una correzione attesa dagli analisti. In questo caso, i maggiori beneficiari sarebbero la Russia e il Kazakhstan, porti al sicuro dalle tensioni nell’area Emea (Europa, Medio Oriente e Africa), e abituati a investire sul mercato dei cambi e attraverso i rispettivi fondi sovrani il surplus derivante da un aumento delle esportazioni. Nel secondo scenario ipotizzato da Barclays, cioè petrolio stabile ai livelli odierni, vi sarebbe un effetto negativo sui tassi di cambio e sulle valute di tutti quei paesi dell’area, Ungheria e Israele esclusi, le cui banche centrali stanno iniziando a programmare un timido rialzo dei tassi di interesse. Ad esempio, per la Turchia, calcolano gli esperti della banca britannica, un incremento di 10 dollari a barile avrebbe un impatto negativo pari al 3% della produzione, calcolata in rapporto al Pil.
Tornando alla Libia, Morgan Stanley, sempre questa mattina, dopo l’apertura odierna spiega che in una settimana Brent e Wti hanno segnato un aumento, rispettivamente, del 9,4 e del 9 per cento, mentre l’Arabia Saudita ha incrementato la produzione giornaliera a 9 milioni di barile, 500mila in più rispetto a gennaio. Oggi, dicono dall’istituzione newyorkese, l’output globale dell’Opec è pari a 4,7 milioni di barili al giorno: meno 500mila barili libici al giorno.
Queste le fotografie dell’oggi. C’è tuttavia chi, la scorsa settimana, ha provato a fare la Cassandra, per rispondere alla fatidica domanda: quanto lontano è lo spettro dell’oro nero a 150 dollari a barile?
In un report di venerdì scorso, prosaicamente intitolato «Perché dovremmo iniziare a preoccuparci», Hsbc prova a tracciare un paragone storico tra la crisi petrolifera del ’77, il crollo di Wall Street nel 1987, la Guerra del Golfo dei primi anni ’90 e la recessione del 2008, proprio quando i prezzi dell’oro nero si sono impennati fino a 150 dollari a barile. In tutti i casi, un boom nel comparto ha significato l’inizio di una recessione. Lo scenario attuale, tuttavia, potrebbe essere molto diverso per tre ragioni: la Federal Reserve continua a stampare moneta in cambio di buoni del Tesoro, mentre gli investitori cercano protezione investendo nelle materie prime; sui mercati emergenti, dove il fardello del debito è decisamente più leggero che nelle economie occidentali, aumenta il peso del consumo petrolifero in rapporto al Pil; infine, la storia recente insegna che il problema vero è nella sostenibilità della produzione, più che nella domanda. E, conseguentemente, nelle dinamiche finanziarie sovrastanti. Nota Hsbc: «Nel 2011, in 55 giorni il greggio è incrementato di 18 dollari, un livello pari agli ultimi 100 giorni del 2010». Dove arriveremo?
Nessuno lo sa con certezza, ma Nomura, in un’analisi che risale a mercoledì scorso, fa un interessante paragone geopolitico tra l’onda rivoluzionaria mediorientale e l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. Durante quel periodo – la prima volta in cui i tg della sera inondarono le case di immagini dei pozzi petroliferi in fiamme nel mezzo del deserto – l’incremento fu del 130%, a causa della ridotta capacità dell’Opec, pari a 1,8 milioni di barili al giorno e una domanda globale in calo dell’1,7 per cento. Oggi, qualora Libia e Algeria dovessero dimezzare le loro operazioni estrattive, la capacità dell’Opec si ridurrebbe di 2,1 milioni di barili al giorno. Tradotto: 220 dollari a barile. Ben oltre il livello dei 150 dollari al barile, che arrivarono a ruota del crollo di Lehman Brothers.