Goffredo Mameli discolo lo è stato per davvero, figliastro di un Paese che si dipinge trasgressivo, ma che è poco radicale e molto conformista. Perfetto rappresentante di una stagione politica, in cui molti hanno messo in gioco se stessi, la vicenda di Mameli è esemplare di che cosa significa la scelta politica: il culto del gesto eroico; l’ansia dell’azione esemplare; l’idea che la storia si fa solo stando nei processi concreti, «sporcandosi le mani».
Un classico ribelle moderno, convinto che ribellarsi significhi sostenere «sei quello che fai» contrapposto senza possibilità di mediazione a «sei quello che pensi».
Mameli è un individuo posseduto dal “fuoco” della politica, uno che a vent’anni va via di casa convinto di guidare una rivoluzione, che dice al suo padre politico – Giuseppe Mazzini – che cosa fare, che ha un’immagine della politica come missione basata sulle competenze e sulle qualità; che ha netta e chiara la divisione tra fede e politica.
Non vale solo per lui, del resto. Come sostiene lo storico Emilio Gentile (Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento, a cura di Simonetta Fiori, Laterza), la fisionomia culturale degli uomini del Risorgimento è laica e anticlericale, ma non è né anticattolica, né anticristiana. Mameli stava perfettamente in quel solco in armonia con i tre obiettivi fondamentali che si proponeva il Risorgimento: 1) liberare l’italiano dalla servitù del dispotismo e del conformismo; 2) conferirgli un senso della dignità come cittadino dello Stato nazionale; 3) affermare il merito e la capacità dell’individuo contro il privilegio di nascita e di casta. Tre obiettivi e che si condensano nella sua veloce parabola umana e di vita pubblica tra la primavera del 1848, quando parte volontario da Genova in soccorso egli insorti delle Cinque giornate di Milano, e la morte straziante a Roma, nel luglio 1849, in una città ormai in mano alle truppe francesi accorse in aiuto a Pio IX per restaurare il potere temporale della Chiesa.
Nella storia di Mameli si nasconde anche un destino e un segno della storia italiana che trova conferma nella vicende tormentate sia del suo corpo, dopo la morte, sia di Fratelli d’Italia. È il caso di raccontarle entrambe, perché nella foga della sua lettura al Festival di Sanremo, Benigni si è dimenticato di raccontarle. Cominciano dal corpo.
Quello del corpo di Mameli è un lungo viaggio di cui vale la pena di riportare le tappe principali, anche perché costituisce un “manuale” dell’uso politico del Risorgimento su cui è bene riflettere e che ci riguarda da vicino. Appena morto (6 luglio 1849), Goffredo Mameli viene imbalsamato da Agostino Bertani e poi deposto nel cimitero sotterraneo della chiesa delle Stimmate, a Roma. Nel 1871 le autorità ecclesiastiche autorizzano la riesumazione del corpo, ma il nuovo governo italiano non è favorevole a una cerimonia pubblica. La cerimonia che si tiene è strana: ci sono molti vecchi compagni d’arme, Garibaldi è assente, la famiglia non assiste. Il funerale è civile. Qualcuno intona il Canto degli Italiani, cui segue la lettura di alcuni scritti di Mameli. Quelle parole suscitano il disappunto dei rappresentanti del governo presenti e dunque il corpo viene sepolto in un loculo del cimitero, in attesa di un posto dignitoso. Nel 1889 Alessandro Guiccioli, figlio di Ignazio Guiccioli, ministro delle Finanze della Repubblica Romana del 1849, decide di proporre la costruzione di un monumento funebre al Verano. Il monumento è costruito e inaugurato nel 1891 e il 26 luglio di quell’anno le spoglie di Mameli vengono sepolte lì.
Ma il corpo di Mameli crea ancora imbarazzo. Nessuno pensa più a Mameli finché, nel 1941, a guerra iniziata, Mussolini rievoca la morte di Mameli per colpa delle armi francesi. Per celebrare l’italianità, Mameli torna di nuovo utile. Viene allora deciso di costruire quel sacrario votato dal Parlamento, mai deciso del governo italiano e che era stato al centro delle polemiche settant’anni prima. Così, prima ancora della fine dei lavori, le spoglie di Mameli vengono di nuovo riesumate e trasportate all’Altare della Patria per essere poi collocate, in attesa del termine dei lavori, a San Pietro in Montorio, nel quartiere di Trastevere. Come molte cose nella storia italiana, niente è più definitivo di una decisione transitoria, e infatti è lì che ancora oggi si trovano.
Ma anche la vicenda di Fratelli d’Italia non è meno imbarazzante. Fratelli d’Italia nasce nell’autunno del 1847, ma non è mai diventato ufficialmente l’inno nazionale. Infatti non c’è un atto che affermi che è l’inno nazionale. Ecco una storia che nessuno racconta. L’inno del Regno d’Italia era la Marcia Reale. Tenuto “a bada” nell’Italia sabauda, perché troppo radicale per gli ambienti monarchici o considerato eccessivamente conservatore da parte degli internazionalisti e poi dei socialisti; negletto nell’Italia della Prima guerra mondiale (il cui testo di riferimento è La leggenda del Piave o La canzone del Grappa); sostanzialmente ignorato nell’Italia fascista, che elegge Giovinezza a testo identitario e che diffida dei canti risorgimentali, perché vi vede implicita una lode alla libertà, tant’è che nel 1932 il segretario del Partito nazionale fascista, Achille Starace, vieta qualunque canto che non faccia riferimento al Duce o alla Rivoluzione fascista. Finita la guerra, dopo la proclamazione della Repubblica, in mancanza di un inno ufficiale, il 14 ottobre 1946, il Consiglio dei Ministri, dovendo individuare un testo da far eseguire in occasione della vicina ricorrenza del 4 novembre, decide in condizione di urgenza e in via provvisoria, su suggerimento del deputato repubblicano Cipriano Facchinetti, di adottare Fratelli d’Italia come inno nazionale. Quella decisione non è mai diventata definitiva.
Una doppia vicenda che forse meriterebbe una fiction in prima serata, se non fosse imbarazzante raccontarla. Ma dove, paradossalmente ma non sorprendentemente, c’è molta storia italiana.
*Storico delle idee, ha pubblicato saggi su Mazzini e curato gli scritti di Mameli