Con i tumulti delle ultime settimane, le coste meridionali del Mediterraneo riprendono quella centralità che avevano perso nell’ultimo cinquantennio. La decolonizzazione degli anni Sessanta aveva portato alla ribalta una nuova classe diventata interprete di valori originali (dal nazionalismo laico al non allineamento al panarabismo) che sembravano in grado di coalizzare un blocco sociale nuovo e di porre le basi per una graduale uscita dall’epoca coloniale. Ma l’Occidente, intimorito e poco interessato, lasciò cadere la proposta.
L’ambulante tunisino che a metà dicembre si è dato fuoco a Sidi Bouzid, diventando in poche settimane il simbolo della rivolta contro il regime di Ben Ali, non conosceva certo Jan Palach che si era immolato nel gennaio 1969 a Praga. Perché la Cecoslovacchia potesse sorgere a nuova vita passarono 20 anni, oggi alla Tunisia sono bastati 20 giorni e il muro dei regimi nordafricani si è sfaldato nei 20 giorni successivi. Praga non è Tunisi e il Cairo non è Tripoli, per cui i raffronti tra il 1989 europeo e il 2011 nordafricano non reggono il tempo e le distanze. Allora come adesso, però, gli effetti positivi del crollo della situazione ingessata che aveva scandito i decenni precedenti sono stati subito visibili. Non così la causa, anche perché non ne esiste una sola. E non sempre le cause immediate ed evidenti sono sufficienti a capire.
Erano tutt’altro che campate in aria le tesi dello storico belga Henry Pirenne, secondo cui fu l’affermarsi della potenza araba e non le invasioni barbariche a far cadere l’impero romano e con esso l’unità politica che Roma aveva saputo costruire lungo le sponde del Mediterraneo, trasformando le due parti di un insieme geografico e culturale in due terre lontane. E dalle Crociate fino a alla nascita degli Stati nazionali nordafricani, successiva alla liberazione dal colonialismo europeo, Nord Africa ed Europa hanno continuato una danza complessa, che resta di difficile lettura per storici e analisti.
Per usare l’efficace immagine usata da Thomas Friedman, negli ultimi cinquant’anni Europa e Stati Uniti hanno trattato il Medio Oriente come una collezione di grandi aree di rifornimento di benzina. Con un messaggio e un patto molto chiaro: «Ragazzi lasciate le pompe aperte, tenete prezzi ragionevolmente bassi, non date troppo fastidio a Israele e per quel che ci riguarda nel retrobottega potete fare quello che volete, che sia privare le vostre popolazioni dei diritti civili, non porre limiti alla corruzione, predicare l’intolleranza nelle vostre moschee, o mantenere il genere femminile in uno stato di sudditanza», e via dicendo. Proprio questo atteggiamento avrebbe permesso che il mondo arabo si isolasse dalla storia negli ultimi cinquant’anni in un immobilismo totale, coltivato/tutelato dagli stessi clan familiari e dinastici al potere per decenni. Come per Pirenne, è difficile essere del tutto d’accordo con Friedman. Ed è altrettanto difficile sostenere che abbia torto.
Ma la storia è tornata. Ed è tornata la politica. Con nuovi protagonisti, nuove generazioni, con il web, i social network, ha ribaltato in poche settimane un quadro che sembrava stabilizzato e non particolarmente pericolante.
Cosa succederà ora, dopo che la Tunisia e l’Egitto hanno deciso di chiudere l’esperienza politica di regimi autocratici, filo occidentali, ormai logorati del loro stesso immobilismo? Chi farà la sintesi di quelle proposte di rinnovamento che emergono da gruppi di opposizione eterogenei e spesso inconciliabili nelle rispettive rivendicazioni? Quali le esigenze e priorità che spingono studenti, professionisti, donne a scendere in piazza contro uno Stato inadeguato a comprendere e gestire la loro modernità e i loro bisogni?
L’attualità di Egitto, Tunisia e Libia difficilmente rimarrà confinata alla cronaca di questi giorni, avendo tutti i requisiti per diventare il punto d’avvio di un nuovo capitolo della storia dell’intero Mediterraneo. Questa rivoluzione ha definitivamente legittimato nuovi attori culturali e politici, e in particolare una generazione “postislamista”, pragmatica, piuttosto laica, nazionalista, istruita. E al contempo ha scandito il ritorno del mondo arabo nella storia. Un ritorno che sarà poco lineare e complesso, ma impossibile da ignorare.
Più di metà dei 350 milioni di arabi del mondo ha meno di trent’anni, la maggior parte di essi ha poche possibilità di trovare in loco un buon lavoro e di costruirsi un futuro dignitoso. Peccato però che il resto del mondo non sia particolarmente aperto, per mille ragioni, nei confronti degli arabi. Non sarà liquidandoli come fondamentalisti che potremo evitarne l’ingombro. Il dato che colpisce è che, mentre la vecchia Europa rischia di naufragare, il nuovo Nord Africa tende a superare lo schematismo delle esperienze nazionali e ritrova coesione in un progetto dai tratti ancora incerti che si aggrappa però a radici ben più profonde di quelle della recente storia politica.
Per la prima volta dopo decenni gli arabi si sono ribellati senza alzare nelle piazze la bandiera verde dell’Islam al grido di Allah-o-Akbar ma con bandiere nazionali per chiedere lavoro, la fine della corruzione e l’uscita di scena del satrapo di turno.
Ma questi fattori comuni e l’avere dappertutto come principale soggetto politico la gioventù mediorientale non dovrebbe indurre ad una lettura generalizzata. Le strutture politico-economiche e la società civile egiziana sono molto diverse da quelle libiche, algerine e tunisine. Facile, ma rischioso azzerare queste differenze parlando di mondo arabo. L’effetto domino è innegabile ma produce risultati asimmetrici. L’importanza dei clan, la divisioni tra sciiti e sunniti giocano ruoli diversi nei diversi Paesi. I redditi procapite della Tunisia e quello del Bahrein – poco più di 7.000 e oltre 33.000 nel 2009 – sono lontani anni luce ed è difficile pensare che nelle strade di Manama si protesti per il pane, con un reddito su standard europei.
Il fatto è che sta subendo colpi durissimi anche il sogno di ricchezza che in questi quarant’anni aveva sostituito l’ideologia panaraba del presidente egiziano Nasser e aveva preso l’avvio con la guerra dello Yom Kippur e la crisi petrolifera del 1973, facendo da collante all’egemonia saudita. I regimi più stabili sono caduti per primi, il fondamentalismo islamico non ha avuto un ruolo attivo nelle proteste di piazza e l’attenzione è tornata su problemi quali le condizioni di vita, la libertà, la distribuzione del reddito, i conflitti di interesse, la giustizia. È davvero tornata la politica in terra araba, e se la politica vale tra le lussuose residenze del Bahrein a maggior ragione dovrebbe valere in Paesi e per popoli meno fortunati. A partire da quello palestinese.