Sulla Libia lo spettro della Somalia

Sulla Libia lo spettro della Somalia

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha decretato una serie di sanzioni internazionali contro il regime libico. Sul campo intanto la rivolta avanza verso Tripoli, dove sono oramai caduti nelle mani dei ribelli l’aeroporto, a Sud-Est della capitale, e la città di Zawiya, a pochi kilometri lungo la costa a Ovest di Tripoli. A difendere la capitale e Gheddafi nel suo rifugio di Bab Al-Azizia resta la brigata d’élite Khamis.

Le notizie circa la fuga del Colonnello si sono più volte susseguite a partire dalla «giornata della collera», il 17 febbraio scorso, quando iniziò la rivolta. Gheddafi invece non si è mai mosso da Tripoli e lo ha gridato alla folla ieri e prima ancora il 23 febbraio: «Sono un rivoluzionario, sono un combattente … lotterò fino alla fine e morirò come un martire». Anche le trattative in corso con i ribelli, delle quali parlano alcune agenzie di stampa, lasceranno probabilmente il campo alla battaglia finale per Tripoli. Gheddafi è la Libia e non c’è Libia senza Gheddafi. La rivolta che ha come bersaglio la cacciata del Colonnello presuppone anche la fine della rivoluzione permanente, instaurata con il colpo di Stato militare del 1969 e condensata idealmente nel famoso Libro verde.

La Grande Jamahiriya libica, ideata da Gheddafi (letteralmente “governo delle masse”), ha cercato di realizzare una sorta di democrazia diretta con la partecipazione del popolo al governo attraverso i comitati locali incardinati nel congresso generale. In ragione della vagheggiata democrazia popolare, tutto è Jamahiriya cosicché parlamento, rappresentanza, scioperi e opposizione sono diventati superflui.

La Libia fu di fatto un’invenzione uscita dal colonialismo italiano attraverso una specialissima decolonizzazione pilotata dalle Nazioni Unite. Il tentativo di trasformarla in una nazione unitaria attraverso la rivoluzione del 1969 è fallito nonostante tutti gli sforzi di Gheddafi, forse proprio per aver appiattito il senso di quel cambiamento sulla sua figura di leader carismatico: la politica di arabizzazione invocata per superare nel quadro dei confini ereditati dal colonialismo italiano le differenze di storia e cultura a livello regionale (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) ha portato in realtà a una beduizzazione della società e dello Stato con l’esaltazione dei valori e rituali tribali. Proprio perché lo Stato è il suo leader, la caduta di Gheddafi rischia di portare con sé anche le istituzioni statuali.

La Libia non è l’Egitto o la Tunisia perché in questi paesi lo Stato ha dimostrato di essere in grado di resistere al di là dei rivolgimenti di regime al vertice. La rivolta, che ha preso a simbolo la vecchia bandiera della monarchia federale dei tempi di re Idris al Senussi, ha un carattere eterogeneo e spiccatamente regionale come dimostra la proclamazione nelle regioni orientali liberate della “Repubblica provvisoria della Cirenaica”. Il rischio vero è quello di una frammentazione sociale e politica del paese, non tanto di un immaginario emirato di al-Qaeda, che viene paventato da Gheddafi per la sua stessa sopravvivenza e da chi in Occidente spera fino all’ultimo che l’amico libico non cada. I sintomi di un possibile collasso dello Stato ci sono e potrebbero andare oltre la semplice riedizione in versione federale dello Stato.

Lo spettro è quello di uno scenario simile alla Somalia dove la caduta del regime di Siyad Barre nel 1991 innescò una guerra civile infinita tra i differenti gruppi clanici che sono un tratto distintivo anche della società libica. La debolezza delle istituzioni in Somalia come in Libia rinvia a qualcosa di più di una semplice coincidenza rispetto al comune dominio coloniale italiano.

Gheddafi si è affacciato dal tetto del Castello di Tripoli per pronunciare quello che forse sarà il suo ultimo discorso pubblico: «Vinceremo i ribelli … come abbiamo vinto contro il colonialismo italiano». Dietro i toni esasperati che lo hanno spesso fatto passare per un folle si nasconde l’appello ai suoi fedelissimi del più longevo dittatore africano. Per Gheddafi i ribelli, come un tempo il colonialismo italiano, lottano per una Libia divisa e frammentata. Spetterà ai futuri vincitori dimostrare che quelle furono le parole di un folle, incapace di rassegnarsi a lasciare un potere custodito per anni al prezzo di un ferreo controllo poliziesco e di una spietata repressione di ogni dissenso, ma grazie anche a un’innegabile abilità politica. La Libia rimane parte della periferia del nuovo ordine globale, ma è tutto sommato più vicina al centro di tante altri crisi e probabilmente anche questo contribuirà alla sua salvezza.

*Università di Pavia

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