Chi è Erdoğan, l’idolo delle masse arabe

Chi è Erdoğan, l’idolo delle masse arabe

Durante la campagna elettorale del 2007 il leader dell’opposizione lo accusò di indossare un orologio da 60mila dollari. Il premier turco Recep Tayyip Erdoğan, anziché dare una motivazione a tanta ostentazione, gli rispose che, se voleva, poteva rivenderglielo per 15mila dollari. Il popolo della Mezzaluna, invece di rimanere colpito da tanta arroganza e chiedere da dove arrivassero tutti quei soldi, lo rimandò al potere per la seconda volta, con quasi il 47% dei consensi. A dimostrazione del fatto che Erdoğan in Turchia fa da tempo ciò che gli pare, forte di un consenso popolare che spesso travalica le motivazioni politiche. Il suo è un personaggio che fa discutere, sicuramente l’unica figura di rottura nella politica turca degli ultimi 20 anni. Di sicuro fa sorgere molti dubbi, ma quello che è chiaro è che gli spetta almeno il merito di aver portato il Paese della Mezzaluna alla ribalta internazionale. Anche se non sempre per motivi positivi.

Classe 1954, durante gli anni del liceo era un calciatore molto promettente, ma la passione per la politica ha avuto la meglio. Così, oggi, è solo tifoso accanito del Fenerbahce, la squadra di Istanbul prediletta anche da Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore dello Stato moderno nel 1923. Per molti questo rappresenta l’unico punto in comune fra il primo ministro e lo statista che sognava una Turchia laica ed europea. Nato in una famiglia povera proveniente dal Mar Nero, il premier ha iniziato a fare parlare di sé soprattutto a causa del suo passato di militante in diverse formazioni islamiche, poi puntualmente messe al bando da uno dei baluardi della parte più laica dello Stato, la Corte Costituzionale. Nel 1994 si è preso una condanna a dieci mesi di carcere per istigazione all’odio religioso, anche se poi ne ha scontati solo quattro. Passato a parte, il primo ministro, che oggi definisce il suo partito “islamico-moderato” e “filo-europeo”, è considerato l’uomo nuovo della Turchia, colui che è riuscito a portare il Paese della Mezzaluna alla ribalta internazionale – e alle porte dell’Europa – dopo decenni di sostanziale anonimato.

Uno degli aspetti più importanti di questo successo è la crescita economica che il Paese sperimenta ormai dal 2005. Andata avanti a colpi del 5-6% ogni anno, a fine 2010 è arrivata all’8%, al di là di tutte le più rosee aspettative. Un successo al quale bisogna fare la dovuta tara, se si considera che il Fondo Monetario Internazionale continua a chiedere ad Ankara una maggiore disciplina fiscale e di porre rimedio al deficit che nel 2011 toccherà il 6% del pil. «C’è una Cina vicina che si chiama Turchia», ha detto più volte Erdoğan agli investitori, e gli outlook sul Paese sono molto positivi. La nazione continua a galoppare e il governo ha annunciato un 2011 di investimenti e grandi opere. Intanto la Merkez Bankası, la Banca Centrale turca, ha tagliato i tassi di interesse, che sono arrivati ai minimi storici, per cercare di frenare l’ingresso di capitale straniero e gli addetti ai lavori pensano che la riduzione del costo del denaro potrebbe andare avanti almeno fino a marzo.

Una mossa inconsueta, pensata specialmente per gli esportatori, e che va contro i consigli dell’organo presieduto da Dominique Strauss-Kahn. Gli uomini del Fondo auspicavano infatti un aumento del costo del denaro per frenare una crescita che sta comportando un eccesso di liquidità e che può esporre l’economia nazionale al rischio di una bolla immobiliare. Anche Nuriel Roubini, economista alla New York University nato a Istanbul da famiglia persiana, ha più volte messo in guarda l’esecutivo islamico-moderato, soprattutto sulla bilancia dei pagamenti. Ma la Turchia ormai gioca da sola e ama il rischio, con tutti i prezzi che questo comporta, anche dal punto di vista politico.

La politica economica che ha contrassegnato il secondo mandato dell’Akp, il partito di Erdoğan, è stata caratterizzata dall’audacia: un’imponente ondata di privatizzazioni alla quale è seguita una precisa volontà di sganciarsi sia dai mercati tradizionali, primo fra tutti l’Europa, sia da qualsiasi forma di vincolo. Una Turchia, insomma, in grado di correre da sola. In quest’ottica va letto il rifiuto di contrarre un secondo prestito ponte con l’Fmi di 30 miliardi di dollari (che avrebbe dovuto traghettare il Paese fuori dalla crisi) e la scelta di diversificare il più possibile il mercato. E qui Ankara non si è più accontentata di correre da sola, ma ha iniziato a fare il battitore libero. Rivolgendosi soprattutto a una parte. Già durante il primo esecutivo guidato da Erdoğan, il ministro del Commercio Estero Kürşad Tüzmen aveva posto le premesse per avviare relazioni commerciali privilegiate con i Paesi confinanti, soprattutto Iran, Siria e Libano. Una tendenza che si è andata accentuando dal 2009, quando al ministero degli Esteri è arrivato Ahmet Davutoğlu, considerato da tutti l’ideologo del neo-ottomanesimo, teoria che consiste nel mantenere ottimi rapporti con gli Stati che un tempo componevano l’impero e aumentare l’influenza turca su di loro. L’accusa è quella di aver reso la Turchia più protesa verso Est che verso Ovest, in particolare verso l’Iran di Ahmadinejad, con la scusa di trovare nuovi mercati e del buon vicinato.

Per l’esecutivo e chi lo sostiene si tratta di maldicenze pretestuose. Intanto a febbraio 2010 è stata riaperta, con grande enfasi dei media locali, la linea ferroviaria che collega Turchia, Siria e Iraq. Nei prossimi mesi di quest”anno dovrebbe poi entrare in vigore una zona di libero scambio fra Turchia, Siria, Libano e Giordania. L’interscambio commerciale fra Ankara e il mondo arabo era 13 miliardi di dollari nel 2004 ed è salito a 29 nel 2009. Le aziende arabe che operano nella Mezzaluna sono oltre 2000, rispetto al migliaio scarso di qualche anno fa. A queste vanno aggiunte anche le 1400 iraniane. Con Paesi come la Siria l’interscambio commerciale è aumentato in quattro anni del 162%, arrivando a 1,5 miliardi di dollari e il flusso turistico del 170%, con oltre un milione di presenze nel 2010. I Paesi con cui il volume di scambio è aumentato maggiormente sono stati l’Iran, con il 97% in più rispetto all’anno precedente, il Tagikistan con un +75,5% e il Kuwait, con il +60,4%. Cifre che fanno riflettere la Vecchia Europa, che detiene ancora il 40% dell’interscambio commerciale con la Turchia, ma che guarda con preoccupazione a questa avanzata mediorientale e che sta avendo i suoi effetti anche negli investimenti stranieri diretti. Nel 2009, che è stato un anno di magra a causa della crisi, i soli Paesi del Golfo sono riusciti a totalizzare 1,6 miliardi di dollari di investimenti esteri diretti, contro i 5 dell’intera Comunità Europea.

La causa principale di questa inversione di tendenza – secondo l’opposizione la causa di tutte le disgrazie del Paese – è proprio il premier Erdoğan che dopo i dissidi con Israele dei mesi scorsi, attualmente in fase di faticosa ricomposizione, ormai viene accolto in tutto il Medio Oriente come una rockstar. Da tempo i quotidiani, da Damasco a Kuwait City, concordano nell’affermare che il capo del governo turco dovrebbe rappresentare un modello a cui ispirarsi. Intanto, in patria, la sua popolarità continua ad andare a gonfie vele e sono in molti a pensare che, da quando è diventato capo del governo, anche i suoi affari ne abbiano risentito positivamente. Quasi in maniera miracolosa, se si tiene conto delle umili origini del primo ministro. Nel 2001 infatti il patrimonio della famiglia era valutato dai suoi avversari attorno al miliardo di dollari. Oggi sarebbe ancora più alto e, considerato che lo stipendio da primo ministro gli fa guadagnare “solo” 70mila dollari annui, i conti non tornano e le malelingue abbondano. C’è chi accusa la famiglia Erdoğan di avere almeno 8 conti correnti in Svizzera, nonché partecipazioni importanti nel campo alimentare e della sanità. Lui si difende dicendo che sono tutte accuse false, però intanto la magistratura tedesca, nel 2007, ha colto in flagrante il suo ex braccio destro che si intascava 7,5 milioni di euro, teoricamente destinati a opere di bene e provenienti da offerte di turchi residenti all’estero. Degli altri 7,5 milioni raccolti non si è mai capito dove siano andati a finire, ma molti quotidiani di opposizione ritengono siano stati versati su conti di Hamas.

Sempre più detestato da chi lo teme – per il momento una minoranza – Erdogan è idolatrato da chi, al contrario, lo ama. Negli ultimi anni, infatti, si è passati da un apprezzamento per il politico a un vero e proprio culto della personalità. Per il suo popolo rimane l’uomo del miracolo, il povero che dalla polvere di Kasimpasha è diventato ricco e dal vendere limonata per la strada durante il liceo, ha raggiunto la carica di primo ministro di una delle economie emergenti destinata a contare anche a livello globale. Il no al Fmi, dopo un anno di trattative, ha attirato l’attenzione di tutta la comunità economica internazionale, così come i tassi di crescita, a livelli cinesi nei primi due trimestri del 2010 e che, dal terzo, hanno iniziato a ridimensionarsi. 

Lui, delle maldicenze, non si interessa e continua per la sua strada, seguito da quella parte di imprenditoria anatolica, attaccata alla tradizione religiosa, che in pochi anni ha visto migliorare esponenzialmente il proprio business e spostarsi dalla provincia a Istanbul, la capitale economica del Paese. Hanno una loro associazione, la Musiad, che si pone come alternativa alla Tusiad, la Confidustria “ufficiale”, guidata dalle famiglie storiche dell’imprenditoria turca, spesso saldamente legate alla tradizione laica, che hanno studiato in scuole straniere e vivono all’occidentale. I nuovi ricchi turchi vengono da un ambiente sociale e culturale molto diverso, sono spesso osservanti. Alcuni sono perfino arrivati a mettere gli occhi sulle dimore sul Bosforo, da sempre appannaggio dell’intellighenzia laica del Paese. Rappresentano una delle componenti più importanti dell’elettorato di Erdoğan, certo quella che meglio illustra come stia cambiando la Turchia sotto la guida dell’ex venditore di limonata.

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