La Francia del “piccolo Napoleone” Sarkozy (quello originale era ancor più basso, a dire il vero) è il nuovo nemico di un Paese che, incapace di reagire alle molte infezioni interne che da due decenni lo consumano, ha disperato bisogno d’inventarsi nemici esterni a cui attribuire la colpa delle proprie, continue e crescenti, disgrazie. Visto che la perfida Albione non offre il destro, tocca in questo periodo ai francesi i quali, non riuscendo ad accontentarsi della Carla e di Bulgari, ora vogliono anche l’olio libico (che ci spetta per manifesto destino, come il posto al sole), la Parmalat, la Edison e quant’altro. E questo non si può assolutamente permettere: il consenso è unanime da destra a sinistra e da La Repubblica a Il Giornale che, divisi sull’età in cui una prostituta diventa affittabile, marciano uniti in difesa dei latticini italici.
Il nazionalismo beota, alimentato dai fasti delle celebrazioni del 150ennio, miete vittime reali a destra ed a manca. Se non fosse che quanto sta avvenendo costituisce un ulteriore grave passo nella scala in discesa della decadenza nazionale, non sarebbe il caso d’occuparsi di simili temi. Ma la vittoria del peronismo tremontiano si misura anche e soprattutto in questo: che siamo forzati a discutere di protezionismo aziendale e che, nel farlo, ci si ritrova ad essere minoranza sparuta. Stabiliamo alcuni punti fermi, e poi proviamo ad argomentarli:
- L’utilizzo di strumenti politici e legislativi per preservare l’ “italianità” del pacchetto di controllo azionario di una qualsiasi impresa è solo un favore a parassitici ed inefficienti famiglie, salotti e gruppi di potere vicini ed affini al potere politico. Non favorisce, anzi danneggia, gli altri 60 milioni di italiani i quali non fanno altro che pagare il conto perché i Ligresti di turno continuino a rimanere ricchi con i soldi altrui, pur avendo fallito in qualità di imprenditori.
- La giustificazione secondo cui questo va fatto perché così fan tutti è sia falsa che frutto di una totale incomprensione del problema. Anche se tutti lo facessero, sarebbe nostro interesse non farlo. Poiché non v’è lo spazio per dibattere con attenzione questo punto affermiamolo in maniera apodittica: non v’è evidenza alcuna, assolutamente da nessuna parte, che la protezione “politica” della proprietà nazionale di aziende “strategiche” aumenti la loro capacità di produrre valore aggiunto, l’ammontare di esternalità positive che esse generano per il resto del sistema o anche solo il loro tasso interno di crescita.
Chiarito questo principio di fondo – fatta eccezione per le poche imprese veramente strategiche, legate al sistema della difesa, il resto cresce meglio se sottoposto alla disciplina del takeover e, in un’economia piccola, asfittica e priva di un libero mercato dei capitali come l’Italia, il takeover che disciplina non può non arrivare dall’estero – veniamo alla questione che appassiona gli italiani: così fan tutti.
Negli Stati Uniti è praticamente impossibile, per azionisti esteri, acquisire il controllo di un’impresa aeronautica o di qualsiasi impresa che operi in settori tecnologicamente avanzati i quali, avendo quasi sempre una qualche valenza militare, vengono considerati strategici. L’opinione pubblica indiana è oggi in armi contro la possibile acquisizione di alcune imprese farmaceutiche locali da parte di multinazionali occidentali, per timore che queste smettano di vendere a basso prezzo i medicinali generici che avevano prodotto sino ad ora. Sia in Francia che in Germania risulterebbe estremamente difficile, per non dire impossibile, che un gruppo finanziario straniero acquisisse una partecipazione di maggioranza in una grande banca o in una grande compagnia elettrica; persino i cinesi (le cui attività di shopping industriale ai quattro angoli del mondo sono ben note) dibattono aspramente e da tempo la continua acquisizione (che però continua) delle loro imprese di successo da parte di capitali esteri.
L’elenco potrebbe continuare, senza dubbio alcuno. Ma c’è una differenza, ed è banale assai anche se, per poterla dimostrare, sarebbero necessarie tabelline, grafici, statistiche e svariate dozzine di pagine. La differenza consiste nel fatto che nessuno, dalla Francia alla Cina, si sporca le mani per “difendere” il controllo nazionale di un’impresa che fa lo stracchino, o gli anelli e le collane di lusso o è un player del tutto secondario nel mercato elettrico europeo. Meno ancora, nei Paesi che crescono, ci si sporca le mani per mantenere al potere team manageriali altamente incompetenti che un takeover estero potrebbe spazzare ridando all’impresa che mal gestiscono opportunità per generare valore aggiunto. Queste cose si fanno solo in posti come l’Argentina e l’Italia ed i risultati, nel lungo periodo, si notano. Detto altrimenti: se occorre sporcarsi le mani e rischiare lo scontro con la Commissione Europea, meglio farlo per qualcosa che sia davvero strategico e non per proteggere con interventi pubblici i Ligresti ed i Geronzi, come di fatto si sta facendo. Perché, alla fine, dietro al patriottismo dell’intervento tremontiano ed agli appelli a “fare sistema” che vengono da angoli ben definiti del sistema imprenditoriale italiano non c’è altro che l’antica motivazione: fare un favore agli amici che poi, di certo, lo restituiranno.
L’azione governativa si palesa insomma come dannosa agli interessi nazionali proprio perché non si fonda né su una politica industriale pensata e sensata, né su un’effettiva analisi di cosa sia strategicamente importante, per la nostra crescita, mantenere sotto il controllo del management italiano. Essa è motivata solo da interessi di bottega nel senso stretto del termine, ossia dal desiderio di questa classe politica e dei suoi referenti manageriali di mantenere nella propria sfera d’influenza delle imprese che, se fossero controllate e gestite da management straniero, sarebbero forse più redditizie di quanto siano ora ma, senza dubbio alcuno, molto meno condizionabili dalla politica. E questo, alla novella casta peronista che ci governa, non piace.