Dopo l’esplosione rivolte arabe, e ora della guerra in Libia, hanno subito un brusco arresto i progetti di integrazione elettrica con il Mediterraneo. Il progetto tedesco “Desertec” e il francese “Medgrid” volevano installare impianti rinnovabili in tutto il Medio Oriente, dal Maghreb alla Giordania, e con cavi di collegamento specifici garantire la soddisfazione fino al 20% del fabbisogno elettrico europeo nei prossimi decenni. Desertec ha annunciato che un progetto pilota in Marocco «è stato spostato un po’ più in là», mentre di Medgrid per ora si parla poco, in attesa degli esiti delle bombe dei Mirage su Tripoli.
Eppure, è proprio in questa fase politica del mondo arabo, che bisogna credere in tali iniziative. Hanno un potenziale storico non solo in termini tecnici, ma anche come fulcro per cambiare il rapporto che lega l’Europa a queste regioni. Si passerebbe dal «post-colonialismo» (la definizione è di Edward Said) a una vera integrazione economica. Costruire mega-centrali solari nel deserto imporrebbe una vera immersione delle iniziative tecnologiche con il tessuto sociale: con le persone che vi dovranno lavorare, con le imprese locali, con le città e le famiglie che avranno accesso all’elettricità prodotta.
Auspichiamo che l’impegno politico italiano finora profuso verso il nucleare si diriga oggi verso questo tipo di progetti. Il nostro Paese ha avuto qui un ruolo ambivalente. Siamo infatti presenti in molte iniziative “tangibili” di integrazione energetica con il Medio Oriente, tra cui il gasdotto Galsi con l’Algeria o un piano elettrico di produzione e interconnessione con la Tunisia. Abbiamo però lasciato la leadership politica ad ampio spettro al Medgrid della Francia e al Desertec della Germania, Paese il quale neanche ha una costa mediterranea. Almeno, Enel Green Power e Terna si sono associate a Desertec, ma il cuore del gruppo si chiama Munich RE, Siemens, Deutsche Bank, E.On, Rwe, Schott Solar: qui si parla tedesco. A vedere poi la capacità di iniziativa politica dei francesi in questi giorni, e quella energetica contenuta in questi progetti, viene da pensare che la Francia ci abbia sconfitto due volte.
È comprensibile, comunque: queste iniziative nascono da idee industriali, prima che politiche. La Francia ha portato dentro al proprio consorzio anche Alsom e Areva, lasciando intendere che sulle coste africane, a parte i pannelli solari, ci voglia mettere anche qualche centrale atomica. I tedeschi vogliono sviluppare la propria presenza industriale anche oltre i confini europei: gli impianti solari che si prevedono per il Medio Oriente devono ancora essere sviluppati tecnicamente, e le varie aziende partecipanti a Desertec s’impegneranno prima di tutto a fare questo.
I progetti di produzione distante sono il futuro del panorama rinnovabile europeo. Con gli impianti solari a concentrazione, completati dai depositi di calore ai sali di potassio, si potrà produrre energia dalla nostra stella anche di notte. Hermann Scheer, compianto politico tedesco “padre” della politica rinnovabile nel paese, guardava con il fumo negli occhi a queste iniziative, asserendo che si trattasse di un “ritorno delle rinnovabili ai concetti dell’energia tradizionale”, tipo gas o carbone. Eppure, se vogliamo raggiungere l’80% di riduzione delle emissioni in Europa, dobbiamo sfruttare anche le risorse rinnovabili di altre geografie. Vale anche per il Nord: Germania, Norvegia e Danimarca hanno stretto patti per la creazione di parchi eolici sempre più grandi nel Mare del Nord, con cavi e tutto il resto. Dalle sabbie alle acque, ci sono molte difficoltà ancora da superare, ma queste sono le vere prospettive per il nostro continente.
Ciò non significa che il rinnovabile installato in Italia sia meno importante: nella creazione di una rete elettrica affidabile e integrata, tutto serve. Il grosso malinteso è però che i pannelli fotovoltaici che stiamo installando in questi anni siano la tecnologia che ci consentirà di raggiungere alte percentuali di rinnovabili nel nostro mix elettrico. Si tratta di tecnologie ancora poco sviluppate e che producono elettricità costosa: rappresentano un grande e necessario passo avanti, ma non possono essere un punto di arrivo.
Molti sostengono che solo espandendo il settore delle rinnovabili si abbassano i prezzi, di modo che in futuro diventino sostenibili economicamente. È certamente vero; il problema è però che solo una parte minima dei profitti delle installazioni viene investito nella ricerca e sviluppo: si tratta del 2%. Si spendono miliardi per creare in fretta un sistema che ancora non è efficiente: non è chiara l’utilità di installare oggi quantità enormi di pannelli, che poi è necessario mantenere in funzione per venti o trent’anni. Se i progressi della tecnica sono così rapidi, non sarebbe più opportuna una crescita graduale del settore? Anziché installare oggi un gigawatt a trimestre di pannelli dalla resa limitata, non sarebbe meglio distribuire l’installazione nel tempo, abbassando i costi per tutti e aumentando l’efficienza?
Anche qui, non si tratta di un problema meramente industriale, ma di una questione di visione politica. Se il legislatore lascia alle aziende una “finestra di azione” limitata a pochi mesi (come dimostrato dalle vicende degli ultimi decreti del settorre), l’unico obiettivo perseguibile per i nostri imprenditori è installare il più possibile, il prima possibile: chi ha tempo per fare ricerca? Non conviene a nessuno. Se l’Italia vuole essere protagonista del cambiamento energetico europeo, non si può limitare a comprare pannelli solari e pale eoliche da Germania, Cina, Spagna e Stati Uniti. È utile e fondamentale sfruttare le risorse locali in termini di rinnovabili, ma bisognerebbe andare oltre, e cercare di inserirci nella partita rinnovabile del Mediterraneo. Non ci dobbiamo limitare a una delle solite conferenze con tanti bei ricevimenti sulle terrazze romane: un vero progetto presupporrebbe un cambiamento reale del nostro approccio economico. Soprattutto, presupporrebbe una rinata ambizione politica, sia nella gestione del nostro tesoro di imprese, che nei rapporti con gli altri paesi.
*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org