«Da sempre sono innamorato di Anita Garibaldi, per tutto quello che ha saputo rappresentare come donna in tutte le sue declinazioni. E penso che Belen Rodriguez sia la sua incarnazione perfetta». C’è voluto Bruno Vespa per riportare in prima serata tv Anita Garibaldi. L’ultima volta era stata nel 1987, nella città dei fiori oramai cara a Belen. Quella sera all’Ariston cantava Sergio Caputo: “È il Garibaldi innamorato per le strade di Rio, cappello a larghe falde, e sotto un poncho marron, e sotto il poncho Anita mia batte un corasson”. Poi più nulla per la leggendaria moglie dell’eroe dei due mondi.
Anche nella domenica di piazza del 13 febbraio, tra i tanti volti femminili la sua icona è circolata poco. Meglio i volti grinzosi della saggezza, quelli pacifici della Montalcini e della Hack, per una strana inibizione culturale mai ritratte da giovani nei momenti decisivi della loro vita. Non ci sono foto da condividere per Anita Garibaldi, solo disegni. Non esistono diari o memorie, e molto probabilmente non li avrebbe mai potuti scrivere perché era analfabeta. Tra i tanti omaggi in giro per il mondo spicca il monumento al Gianicolo di Roma, dove oggi le ha reso omaggio il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: in sella a un cavallo pistola in mano, da vera amazzone, ma con le braccia che circondano e proteggono uno dei suoi figli. Della moglie del soldato Garibaldi se ne sono ricordati quelli del collettivo Wu Ming che per “Se non ora quando?” l’hanno inserita in un elenco di passionarie, accanto a Rosa Luxembourg e Tina Modotti.
Ma per ritrovarla in libreria si deve andare sullo scaffale per ragazzi, dove l’editore Gallucci a fine 2010 ha pubblicato una biografia con la prefazione nientemeno di Emilio Gentile, alla faccia del libro per ragazzi. C’è voluto un italo americano “di broccolino”, Anthony Valerio (“Anita, la donna che insegnò a Garibaldi ad andare a cavallo”, Gallucci, euro 16,50) per dare per la prima volta un racconto preciso della leggenda, svincolandola dalla presenza opprimente di Garibaldi e sgombrando il terreno dai fumi del mito. A leggere la sua breve ma intensa biografia sembra di rivedere i siparietti tra Werner Herzog e Klaus Kinski sul set sudamericano di “Fitzcarraldo”, pieni di furore e fedeltà: “Aveva occhi neri e nerissimi capelli, era innamoratissima, orgogliosissima e gelosissima – racconta Gentile – Una volta costrinse Garibaldi a tagliarsi la lunga chioma perché la considerava una delle cause dell’attrazione che molte donne sentivano verso di lui. E un’altra volta gli si presentò davanti serrando nei pugni due pistole cariche per ammonirlo: con una avrebbe ucciso lui, con l’altra l’eventuale amante”.
Anita Garibaldi non era italiana, era brasiliana. Anna (Anita) Maria de Jesus Ribeiro, discendente da una famiglia portoghese emigrata in Brasile dalle Azzorre, nata nel villaggio di Morinnhos, nella provincia di Santa Catarina, probabilmente il 30 agosto 1821. Aveva 18 anni quando conobbe Garibaldi a Laguna in Brasile, lui era in esilio con una condanna a morte in contumacia dal re di Sardegna come traditore. A 14 anni era stata già sposata a un calzolaio sparito nel nulla. Ne aveva invece ventotto quando morì il 4 agosto 1849 in una fattoria di Mandriole vicino Ravenna, per un attacco di febbre malarica, incinta del quarto figlio, mentre con il marito sfuggiva alle truppe austriache dopo la disfatta della Repubblica romana, vestita in abiti da uomo e con i capelli tagliati.
Per quasi dieci anni successivi alla sua morte le spoglie rimasero a Ravenna, con Garibaldi in fuga. Poi nel 1859 il generale fece disseppellire il corpo per portarlo nella sua città natale, Nizza, dove rimasero per 80 anni su quello che sarebbe diventato territorio francese dall’anno dopo. Garibaldi nel frattempo si era risposato due volte e avuto figli anche da una terza donna, ma nessuna raggiunse la popolarità della prima. La leggenda di Anita tornò ufficialmente in Italia solo nel giugno del 1932. Quel giorno l’anarchico Angelo Sbardellotto aveva in programma di uccidere il duce durante il discorso d’inaugurazione del monumento ad Anita, scolpito da Mario Rutelli, bisnonno dell’ex sindaco Francesco.
Ma la passionaria era un’eredità scomoda per Mussolini. Nonostante il peso di Garibaldi e l’orgoglio del Duce di aver riportato in patria le spoglie, Anita rappresentava tutto ciò che il misogino fascismo detestava, come spiega lo storico Philip Cannistraro: «Era di origine straniera e di sangue misto, aveva difeso ideali radicali e rivoluzionari, era una vera internazionalista. Era una bigama e madre di figli illegittimi, ma soprattutto una guerriera, e la scelta – che Garibaldi non condivideva – di tornare a combattere le era costata la vita».