Hamas cerca la guerra per evitare la rivolta

Hamas cerca la guerra per evitare la rivolta

GERUSALEMME – Qualcuno salvi israeliani e palestinesi da se stessi. Mentre gli occhi della comunità internazionale sono puntati sulla Libia in guerra, in Medio Oriente sembra di essere stati catapultati indietro di tre anni. La tensione al confine tra Israele e la Striscia di Gaza, dicono le autorità israeliane, è paragonabile ai livelli del 2008. Anno in cui lo Stato ebraico decise di scatenare l’operazione Piombo Fuso contro l’enclave costiera controllata dagli islamico-radicali di Hamas. Da settimane attacchi e rappresaglie si rincorrono: i miliziani palestinesi sparano missili e colpi di mortaio verso lo Stato ebraico, l’aviazione israeliana reagisce a suon di raid. Solo negli ultimi giorni la recrudescenza di incidenti di frontiera e violenze ha causato la morte di almeno otto persone: erano tutti palestinesi, compresi due bambini. Nessuna vittima, invece, dall’altra parte della barricata: ma circa mezzo milione di israeliani che abitano a Ashdod, Ashkelon, Sederot e in altri centri vicini al confine ha dovuto ripetutamente correre a ripararsi nei rifugi, riaperti dopo oltre un anno di relativa tranquillità.

Scuole chiuse e shelter aperti, insomma. Era successo già nel 2008: e il precedente è tutt’altro che rassicurante. Lo spettro di una Piombo fuso II comincia ad aleggiare. Mercoledì mattina, il vice premier Silvan Shalom aveva dichiarato ai microfoni della radio nazionale: «Israele potrebbe dover considerare una nuova offensiva contro Gaza, per rovesciare Hamas». Poche ore dopo, in diversi quartieri di Gerusalemme è risuonata l’eco di un’esplosione: era il boato lugubre del primo attentato dinamitardo dal 2004. Una bomba è esplosa tra la stazione centrale e il centro congressi: una donna è morta, oltre trenta persone sono state ferite. La città santa è ricaduta per alcune ore negli anni di piombo della seconda Intifada. Il portavoce della polizia, Micky Rosenfeld, ha subito negato che l’attacco sia collegato con l’escalation al confine: ma in realtà il dubbio permane.

Mentre gli inquirenti cercano i colpevoli – finora non è stata avanzata alcuna rivendicazione –, bombe israeliane continuano a fischiare sopra la Striscia, e missili palestinesi colpiscono le città del sud d’Israele. Il premier Benjamin Netanyahu ha assicurato: «Reagiremo con decisione e responsabilità». Dichiarazione che suona come un avvertimento. E altrettanto inquietante era anche il comunicato diffuso pochi giorni fa dai vertici militari dello Stato ebraico: «Le forze di difesa israeliane non tollereranno altre aggressioni contro le comunità limitrofe alla Striscia di Gaza. Risponderemo con determinazione a qualsiasi attività terroristica, non accetteremo tentativi di colpire civili o soldati israeliani». «Suggeriamo – aggiungevano i militari – che Hamas smetta di deteriorare la situazione regionale e di mettere alla prova l’esercito israeliano».
In effetti, questa nuova stagione di attacchi lanciati dall’enclave appare come un tentativo del partito islamico palestinese di testare il nuovo scacchiere mediorientale, frutto ancora non maturo della “primavera araba”. Hamas, insomma, vorrebbe capire qual è oggi il suo margine di manovra.

Fonti d’intelligence rivelano che il movimento avrebbe ricevuto alcune assicurazioni da parte delle nuove autorità del Cairo circa la propria libertà di azione; i servizi segreti israeliani aggiungono che l’organizzazione mostra una certa sicurezza che deriva dal possesso di arsenali significativi. Stipati in magazzini militari ci sarebbero ordigni potenti arrivati di straforo da Iran e Siria. Del resto, i razzi atterrati di recente a Beer Sheva, importante centro nel Negev, sono una chiara prova della capacità di fuoco palestinese.
Ma l’iperattivismo di Hamas ha anche un’altra spiegazione, tutta interna. Nelle ultime settimane nella Striscia erano state udite voci, se non proprio di dissenso, quanto meno fuori dal coro: come quelle degli organizzatori della marcia di protesta dello scorso 15 febbraio per chiedere l’unità nazionale palestinese. Il partito islamico, che all’inizio ha cercato di contrastare l’iniziativa, ha poi finito per cavalcarla, snaturandola. Resta, però, il fatto che gruppi indipendenti stanno iniziando a organizzarsi: una minaccia, per il regime di Gaza City, che potrebbe aver deciso di assumere un atteggiamento militante per ricompattare il fronte interno. Alcuni credono che il cinismo della dirigenza palestinese della striscia si spinga anche oltre: provocare una nuova, vasta reazione d’Israele, sarebbe infatti un modo per risvegliare lo spirito di union sacrée tra i palestinesi, e guadagnare consensi.