«Il vostro terremoto non fermerà il nostro programma nucleare». Una presa di posizione muscolare, che arriva direttamente dal ministero della Protezione ambientale di Pechino, battuta dall’agenzia stampa cinese Xinhua e ripresa da un dispaccio della giapponese Kyodo News. «Terremo conto della lezione giapponese (dove è esploso il reattore 1 della centrale di Fukushima, ndr) nella costruzione degli impianti nucleari in Cina», specifica subito dopo Zhang Lijun, viceministro per la Protezione ambientale. Il Dragone, attualmente, possiede 13 reattori funzionanti la cui sicurezza è «comprovata», dicono ancora dal ministero, che ha immediatamente provveduto a scandagliare la parte costiera che si affaccia sul mare per rilevare la quantità di radiazioni provenienti dall’arcipelago nipponico, per ora sotto i livelli di guardia. Nel piano economico 2011-2015, la Cina ha previsto l’equivalente di 40 centrali a ciclo combinato per una capacità produttica totale di 40 milioni di kilowatt.
Dopo il cordoglio espresso dal premier Wen Jabao venerdì scorso, la tregua tra le due economie che si contendono la medaglia d’argento alle spalle degli Usa sembra già terminata. A dispetto della prontezza con cui è stato annunciato un programma di aiuti umanitari: Chen Jianmin, direttore della China Earthquake Administration, agenzia governativa dedicata alle catastrofi di questo tipo, ha affermato ieri in proposito di essere pronto a «partire per il Giappone in qualsiasi momento» per portare assistenza e medicinali.
Se, come rivela il Wall Street Journal, negli attimi successivi al disastro sul sito di microblogging cinese Sina Weibo – una sorta di Twitter in mandarino – ai messaggi di solidarietà si aggiungevano molti interventi densi di sarcasmo nazionalistico, volgendo lo sguardo indietro di appena tre anni, fu proprio in occasione di un altro terremoto che alcuni strappi della Storia vennero ricuciti. Precisamente quando, dopo che il sisma nella provincia sudoccidentale del Sichuan fece 68mila vittime, le forze speciali della Difesa nipponiche, per la prima volta nella storia del Paese, furono autorizzate a intervenire. All’epoca, la Panasonic e altri campioni dell’industria nazionale nipponica contribuirono a donare 10 milioni di yuan (un milione di euro circa) per opere di ricostruzione. Un significativo segnale di distensione dopo le dure violenze di quattro anni prima, quando i violenti scontri tra le due tifoserie nazionali durante la finale dell’Asian Cup di calcio causarono un incidente diplomatico.
A tre anni di distanza, le tensioni geopolitiche sono tornate a salire per via della disputa sulle Isole Diaoyu, al largo del Mar Cinese orientale, che in Giappone si chiamano Senkaku, mentre sul fronte economico dalle parti di Tokyo male hanno digerito il sorpasso di Pechino in termini di prodotto interno lordo (1,339 trilioni di dollari nel secondo trimestre 2010 rispetto agli 1,288 trilioni del Sol Levante). Un elemento, quest’ultimo, tanto fastidioso per Tokyo quanto l’assenso di Pechino all’apertura di un Fondo di salvataggio regionale dopo la crisi asiatica del 1998, al solo scopo di indebolire, nella visione giapponese, l’alleanza con Washington.
Al di là delle previsioni più o meno realistiche sul primato di Pechino – una su tutte quella del premio Nobel Robert Fogel, economista che ha stimato, entro il 2040, il Pil cinese pari a 123 trilioni, il doppio di Europa e Stati Uniti messi insieme – per capire a fondo i pesi e i contrappesi tra i due Paesi è utile analizzare la reciproca bilancia commerciale. L’interscambio con la Cina, primo partner commerciale di Tokyo, nel primo semestre 2010 è stato pari a 26mila miliardi di yen (114 miliardi di euro circa), con un aumento delle importazioni del 17,3% sul 2009 e un più 27,9% sul fronte delle esportazioni. Si tratta dei valori più alti di sempre, e Pechino lo sa meglio di chiunque altro.