Tutti i duellanti hanno qualcosa che li unisce e, se si tratta di Israele e Iran, quel qualcosa è l’interesse alla stabilità del presidente siriano Assad messa in dubbio da proteste popolari che, secondo la Bbc, solo nella città di Deraa, a cento chilometri da Damasco, avrebbero causato 61 morti. Dalla Turchia agli Usa, passando appunto da Gerusalemme e Teheran, si sente uno strano coro: Assad resti al suo posto. Detta così può sembrare una provocazione ma si tratta, molto più semplicemente, di realpolitik.
Mentre il regime continua indefesso a sparare sulla folla, colpisce il «no» di Hillary Clinton alla domanda se gli Usa debbano intervenire militarmente in Siria. La ragione che ha fornito il segretario di Stato è che gli elementi che hanno portato alla costituzione della no fly zone sulla Libia (condanna internazionale, appoggio della Lega Araba e risoluzione delle Nazioni Unite) non sono ripetibili per Damasco. In parte, ha spiegato, perché rappresentanti del Congresso di entrambi gli schieramenti sono convinti che Bashar el-Assad, noto per essere a capo di uno fra i più cruenti regimi della regione, sia «un riformatore». Difficile però crederle: Obama non è manco andato a Capitol Hill a spiegare l’intervento in Libia, esponendosi alla vendette di un parlamento che già di per sé non gli è favorevole.
Perché allora gli Usa frenano in questo modo? Una ragione potrebbero essere le due guerre in corso che costringono gli americani a chiamare quello in Libia «intervento militare» per non dover aggiungerne una terza. Artifici retorici che fanno un po’ tutti ma in cui gli anglosassoni sono maestri perché anche qui c’è una regola: in Inghilterra quelle del Novecento si chiamano tutte «guerre», compresa quella per le Falklands. Tutte tranne che il conflitto per il controllo del canale di Suez del 1956 dove la Corona ha perso. Se si viene sconfitti, non la si chiama più «war». Quella è la «Suez crisis» e come tale la si trova pure in Wikipedia. Ma la Siria è una preda strategicamente così ambita per il controllo dello scacchiere che questa sembra essere quella che si chiama una “logomachia” più che una risposta plausibile.
Quelle che hanno spinto la Clinton sembrano essere ragioni più profonde e per questo anche meno dicibili. «Il mio sospetto è che Arabia Saudita, Giordania e Israele abbiano chiesto agli Stati Uniti di non spingere in Siria. Temono l’instabilità. Il Congresso c’entra poco o niente», dice Joshua Landis, direttore del Center for Middle East Studies dell’Università dell’Oklahoma. Ulteriore riprova è un editoriale sul quotidiano israeliano Haaretz dal titolo «Assad potrebbe consegnare il Libano all’Iran e ad Hezbollah». Il giornale sottolinea il silenzio di Hassan Nasrallah, leader del movimento sciita libanese filo siriano e filo iraniano Hezbollah. Dopo aver spronato gli arabi a scendere in piazza contro Mubarak e contro Gheddafi, ora tace. «Rischia di trovarsi senza uno sponsor politico e forse disconnesso dai suoi legamo geografici con l’Iran» scrive il giornale israeliano che ricorda anche come, lanciando un chiaro segnale agli occidentali, Assad abbia preso le distanze dalla controversa visita del presidente iraniano Ahmadinejad in Libano. Sul fronte opposto in Israele, il conservatore Jerusalem Post attacca l’appoggio di europei ed americani al regime di Damasco con gli ultimi che, dopo sei anni di assenza, hanno nominato un ambasciatore in Siria. Ma ammette: «C’è una ragione per essere molto preoccupati che chiunque o qualunque cosa rimpiazzi il regime di Assad sia ancora più ostile all’Occidente e a Israele».
Oggi poi è stata la volta anche del premier turco Recep Tayyp Erdogan che ha rivelato di aver consigliato ad Assad, di rispondere alle richieste di riforme del suo popolo esprimendo anche le sue preoccupazioni per la sorte di Damasco («Dividiamo una frontiera di 800 km»). Anche qui in ballo c’è molto, ben oltre la sola ambizione di Erdogan di diventare l’idolo delle masse del Medio Oriente come in parte già è. In più con la Siria c’è infatti anche che l’interscambio commerciale turco è aumentato in quattro anni del 162%, arrivando a 1,5 miliardi di dollari e il flusso turistico del 170%, con oltre un milione di presenze nel 2010.
Resta l’Iran. Il motivo della sua preoccupazione è che gli Assad sono sciiti alawiti in un Paese a maggioranza sunnita. Anche a livello di intelligence ci sono legami molto stretti fra le due capitali, anche al di là del comune appoggio a Hezbollah. Se gli Assad dovessero cedere il timone, è naturale pensare che il prossimo inquilino sarebbe sunnita. E chi ne trarrebbe vantaggio? Gli odiati Sauditi con cui Teheran sta già combattendo una guerra a distanza nelle strade del Bahrain percorse dalla rivolta della maggioranza sciita. Morale: con così tanti amici, e l’appoggio dell’esercito, sembra sempre più difficile credere, a meno di clamorosi passi falsi, ad una caduta del Rais di Damasco. Torna per il Medio Oriente la metafora del castello di carte dove non si può muovere niente. Facile capire allora perché gli americani, forse anche con giudizio, abbiano preferito la stabilità alla democrazia. Se hanno davvero potuto scegliere, nel quadro di un equilibrio così delicato, che lascia così poco spazio per muoversi.