Gli alleati che stanno attaccando la Libia hanno bisogno di avere l’appoggio del maggior numero possibile di Paesi medio orientali per far meglio digerire l’azione militare, e le sue conseguenze di morti, feriti e distruzione, all’opinione pubblica. Soprattutto a quella araba: è importante togliere, o almeno ridurre, quell’aria di neocolonialismo che può emanare da un intervento militare in Africa guidato da Francia, Regno Unito e Usa. Determinanti da questo punto di vista sono stati i libanesi che si sono messi alla testa della risoluzione 1973 delle Nazioni Unite che ha dato il via libera ai bombardamenti. Beirut ha giocato un ruolo chiave nello stendere il testo presentato al Consiglio di sicurezza di cui fa parte. In accordo con la Lega Araba, ha rivendicato l’ambasciatore libanese alle Nazioni Unite, Nawaf Salam, «abbiamo chiesto al Consiglio di sicurezza di stabilire misure a protezione dei civili. Le autorità libiche hanno perso tutta la loro legittimità e la risoluzione è mirata a proteggere i cittadini libici». Ma come mai un Paese come il Libano, sotto l’influenza siriana e iraniana, ha svolto un ruolo così importante? Certo, siede in Consiglio e gli altri Paesi arabi hanno sempre auspicato che riesca a parlare a nome di tutti. Ma è una nazione così divisa al suo interno che nessuno ci ha mai creduto davvero. Tanto più con due sponsor come Iran e Siria. Eppure ha avuto un ruolo che la fa apparire come l’Egitto o la Giordania: così vicini agli occidentali che re Hussein era addirittura a libro paga della Cia la quale ha messo in piedi anche i servizi segreti interni giordani su cui si basa gran parte del potere della monarchia.
La risposta, si potrebbe pensare, risiede nel fatto che la piazza libanese ha preceduto quella tunisina ed egiziana con la rivolta del 14 marzo 2005 sull’onda dell’ emozione per l’assassinio del primo ministro Rafik Hariri.. Quel giorno circa un quarto della popolazione, un milione di persone, manifestarono contro il governo in carica appoggiato da Damasco e contro Hezbollah, il partito appoggiato da Iran e Siria. Fu uno shock per il Medio Oriente specialmente dopo quanto era accaduto tredici anni prima, nel febbraio 1982, nella città di Hana, nella Siria centrale. Gli abitanti si erano ribellati e il presidente Hafez Assad mandò i carri armati per fare come si faceva ai tempi dell’Impero romano: rase al suolo la città e almeno 20.000 persone furono uccise. Beirut ruppe quella maledizione, dopo Hana si pensava nessuno avrebbe avuto più il coraggio di alzare la testa, e da lì nacque la coalizione filo-occidentale che porta il nome di quella data gloriosa. Coalizione che vinse le successive elezioni. Ecco però la ragione per cui questa risposta, quella secondo cui il Libano avrebbe assunto un ruolo così determinante perché il suo governo è a sua volta figlio della rivolta, non regge: in quello che sembra un monito per le rivolte di questi mesi, le divisioni interne hanno portato a gennaio, sei anni dopo, al crollo del governo. Quello nuovo di Najeed Mikati sta negoziando in questi giorni l’appoggio di Hezbollah e sarà più sensibile alle loro esigenze. In primis quella di non cedere alle pressioni del tribunale internazionale che sta indagando sulla morte di Hariri, dietro la quale si sospetta esserci la mano dei servizi segreti siriani.
Ed ecco il paradosso: in questo quadro il motivo per cui Beirut sta appoggiando così, con tale vigore, l’iniziativa occidentale risiede molto più in questo fattore, nel ritrovato vigore di Hezbollah, che nella rivoluzione dei cedri (come fu chiamata) visto che è appunto entrata in crisi con il crollo del governo precedente. Un paradosso di quelli difficili da spiegare a prima vista: un movimento filo siriano e filo iraniano che spinge per un intervento occidentale contro un Paese arabo. D’altra parte c’è un dato di fatto: Hezbollah ha espressamente appoggiato la ribellione contro Gheddafi, anche se non si è espresso sulla no-fly zone.
La ragione sta in una vendetta per una vicenda che risale addirittura a 33 anni fa, al 31 agosto 1978. Quel giorno a Tripoli un religioso che ha avuto un ruolo determinante per gli sciiti libanesi, una figura chiave per il futuro Libano, Musa Sudra, doveva incontrarsi con il giovane colonnello che nove anni prima (il 26 agosto 1969) aveva deposto re Idris accusato di essere troppo arrendevole con gli occidentali. Quella fu l’ultima volta che Sudra fu visto in pubblico.
Sadr, come ricorda il settimanale Time, era un uomo alto, pieno di carisma, capace di concionare le folle come di analizzare con arguzia le pagine del Corano. Nato in Iran parlava arabo con forte accento persiano. Alla fine degli anni ’50 andò a vivere in Libano dove iniziò a dare un senso di dignità e vigore alla comunità sciita, fino a quel momento penalizzata. Gli sciiti lavoravano come maestranze al servizio dei locali feudatari ed erano scarsamente rappresentati nel sistema di potere libanese. Sadr aprì centri culturali, orfanotrofi ed altre strutture sociali. Fornendo parte di quel welfare che farà la fortuna politica di movimenti come Hezbollah o Hamas. Parte della sua forza era di essere capace di parlare a tutti. Ad un certo punto iniziò addirittura a tenere sermoni anche nelle chiese cattoliche. Una volta arrivò in un villaggio del sud del Libano. Quando i fedeli lo riconobbero iniziarono a urlare “Allah akbar” o “Dio è grande” . Un testimone, il suo consigliere Abdullah Yazbek, scrisse che «che veniva accolto come fosse Gesù Cristo».
Ma poi le cose cambiarono. Negli anni ’70 il religioso iraniano iniziò a trovarsi sempre più a disagio coi palestinesi che avevano occupato il sud del Libano per lanciare i loro attacchi contro Israele. Allora, quella maledetta estate del 1978, decise di andare a trovare il Colonnello assieme a due assistenti. Apparentemente la ragione era convincere Gheddafi a tenere a freno i bollori palestinesi. Ma la relazione fra i due uomini non decollò mai. Secondo quanto riporta Fouad Ajami nel suo libro The Vanished Imam in un precedente incontro, nel 1975, l’uomo forte del regime libico finse di addormentarsi per porre fine alla conversazione.
Pochi giorni dopo la sua sparizione i libici dissero che Sadr i suoi assistenti erano volati a Roma. Ma il governo italiano smentì. Ajami cita documenti diplomatici americani secondo i quali Sadr è stato assassinato dopo che una lite con alcuni funzionari libici degenerò in violenza. Ma Tripoli non ha mai confermato nulla. Neanche quando 200 mila sciiti libanesi si recarono in Libia per fare pressioni ed ottenere la verità. Quando fu chiesto al Colonnello se con l’ospite libanese avesse rispettato l’antica tradizione di ospitalità araba, Gheddafi rispose: «mi hanno detto che Musa Sadr è iraniano. Non è vero?». La tradizione non si estende agli stranieri, quali sono gli iraniani che non sono arabi ma ariani.
Ma le notizie sulla sua sorte restano contraddittorie. Abdel-Monem al-Houni, un colonnello dell’esercito libico che prese parte al golpe del 1969 ha rotto trent’anni di silenzio dicendo che Sadr fu ammazzato su ordine di Gheddafi. Tuttavia altre notizie provenienti dal caos libico indicano che possa ancora essere vivo e stia marcendo in galera. Il Colonnello non ha mai messo piede in Libano per timore di vendette. E ha fatto bene.