Libia, l’uranio impoverito farà più danni dei raid aerei

Libia, l’uranio impoverito farà più danni dei raid aerei

Gli oppositori libici che hanno festeggiato l’offensiva occidentale contro il regime di Muammar Gheddafi, probabilmente nemmeno lo sanno. Eppure le conseguenze dei bombardamenti di questi giorni rischiano di pagarle anche loro. Per decenni. Perché l’uranio impoverito presente in alcuni degli armamenti utilizzati farà più danni dei raid aerei. E il primo bersaglio sarà proprio la popolazione civile.

Massimo Zucchetti, professore di Impianti Nucleari al Politecnico di Torino, ha recentemente pubblicato uno studio sulle conseguenze dell’inquinamento radioattivo nel paese nordafricano. I dati che emergono sono inquietanti: nei prossimi settanta anni, nelle zone bombardate, i casi di tumore mortale cresceranno di seimila unità. Senza contare le patologie neurologiche e respiratorie e le malformazioni cui andranno incontro generazioni di neonati.

Difficile fare una stima dei quantitativi di DU (depleted uranium) utilizzati finora in Libia. A preoccupare la comunità scientifica sono soprattutto i missili cruise. Nelle prime ore del conflitto, unità della marina statunitense e britannica hanno lanciato nella zona ovest del paese 112 Tomahawk (162 fino a ieri). Secondo gli esperti ogni missile contiene dai 3 ai 400 kg di uranio impoverito. A seconda che il DU sia utilizzato per appesantire la testata o unicamente per stabilizzare l’ordigno durante il volo (in questo caso è presente solo nelle ali). «Tanto o poco che sia – racconta il professor Zucchetti a Linkiesta – in ogni caso abbiamo a che fare con del materiale radioattivo che una volta raggiunto l’obiettivo brucia e si polverizza nell’aria».

Ma non ci sono solo i Tomahawk. Molti dubbi riguardano alcuni velivoli in dotazione all’aeronautica statunitense. In particolare gli Harrier AV-8B – giunti in Libia a bordo della portaerei Uss Kearsarge – che hanno in dotazione munizioni a base di uranio impoverito.

Quali rischi corre la popolazione libica? In seguito all’impatto con l’obiettivo – spiega lo studio del professor Zucchetti – il missile raggiunge una temperatura di circa 5000°C. Del DU presente, circa il 70 per cento brucia. Immediatamente nell’aria si sprigiona una polvere formata da minuscole particelle di ossido di uranio impoverito. Particelle dal diametro spesso inferiore al micron. Almeno il 25 per cento di questo uranio, una volta inalato (anche a distanza di tempo dall’esplosione) rimane nei polmoni di chi lo respira. Nella sua semplicità, il calcolo di Zucchetti è drammatico. Circa 400 tonnellate di DU – pari a un migliaio di missili cruise, quaranta volte il quantitativo usato in Kosovo – equivalgono a una dose collettiva di oltre 100mila Svp (l’indice di esposizione alle radiazioni per persona). Un valore che secondo gli studi del Politecnico di Torino corrisponde all’insorgenza di 6200 nuovi casi di tumore mortale in 70 anni.

La Libia è l’ultimo di una serie di territori avvelenati dall’uranio impoverito. Stessa sorte è già toccata all’Iraq (1991), alla Bosnia (1995), al Kosovo (1999) e più recentemente all’Afghanistan. A causa della particolare posizione geografica però, in Nordafrica la contaminazione rischia di avere effetti anche peggiori. «Nel 1999 il Kosovo fu bombardato con missili contenenti uranio impoverito – ricorda Zucchetti – Qualche anno più tardi, però, quando l’Unep (il programma delle nazioni unite per l’ambiente, ndr) fece alcuni rilievi, le tracce di DU erano sparite. La natura dei Balcani le aveva in qualche modo “digerite”, grazie alle piogge e alla vegetazione presente. Da questo punto di vista la Libia assomiglia molto di più all’Iraq. Realtà aride che favoriscono la dispersione delle particelle di uranio impoverito nell’aria. Anche a distanza di anni».

Non è un caso che le peggiori conseguenze della prima guerra del Golfo stiano emergendo proprio in questi anni. Vent’anni dopo il conflitto. «A Bassora e Falluja – continua Zucchetti – nascono intere generazioni di bambini affetti da malformazioni impensabili. Il tutto con un’incredibile frequenza».

In questa tragedia, il ruolo dell’Italia è marginale. Al di là delle dichiarazioni contraddittorie del nostro Governo, le nostre Forze armate non hanno in dotazione armamenti contenenti uranio impoverito. Nessuno sembra preoccuparsi troppo, insomma. L’unica voce fuori dal coro è quella del deputato dei Responsabili Domenico Scilipoti, che ieri alla Camera ha sollevato il problema: «La situazione che si è profilata in Libia in queste ultime ore è molto preoccupante. Sia i nostri militari, sia le forze alleate, saranno costretti a intervenire in luoghi dove le esplosioni di missili e bombe hanno ormai diffuso tonnellate di polvere radioattiva. La fine del conflitto sarebbe un doveroso gesto umanitario nei confronti della popolazione libica, che sicuramente non possiede idonee misure di protezione».

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