I diritti umani in Libia sono ora più che mai a rischio, anche se Gheddafi non ha mai rappresentato una reale garanzia per la loro tutela. Con una particolare attenzione ai diritti violati, il ministro degli Esteri Franco Frattini ha partecipato a Ginevra il 28 febbraio scorso a una riunione con i colleghi di Stati Uniti, Francia, Germania e Gran Bretagna per decidere il modo migliore per «implementare e coordinare le sanzioni Onu e quelle europee nei confronti del regime libico». Le ipotesi operative sono diverse e, a seconda del grado di interferenza, si parla di garantire corridoi umanitari, istituire una no-fly zone sulla Libia o intervenire sul terreno con un vera e propria missione internazionale di pace sotto l’egida dell’Onu.
In ogni caso è oramai chiaro che in Libia sia in corso una guerra. Gli Stati Uniti sperano ancora che sia Gheddafi a lasciare e offrono come via d’uscita un esilio volontario che difficilmente il colonnello accetterà. Non è un caso se alle profferte americane per un’uscita di scena il più possibile indolore, facciano eco le dichiarazioni di Frattini da Ginevra: «Solo l’Italia ha contatti» con i capi della rivolta libica. L’Italia ha dunque scaricato apparentemente senza ripensamenti l’amico Gheddafi e si propone come punta avanzata della diplomazia internazionale per le trattative con le diverse anime della rivolta che, dopo aver liberato la seconda città del Paese, Bengasi, e la provincia orientale della Cirenaica, avanza verso Tripoli con molte più difficoltà di quante le notizie diffuse negli ultimi giorni potevano far pensare. Evidentemente in Tripolitania non tutti hanno voltato le spalle al Colonnello e anzi è probabile che molti lo sosterranno a oltranza contro quella rivolta che ha invece avuto successo in Cirenaica, la regione della Libia politicamente ed economicamente più emarginata.
La storica frattura tra la Tripolitania, che è parte del Maghreb (l’Occidente arabo), e la Cirenaica collegata invece all’Egitto e oltre al Mashrek (l’Oriente arabo) sta riemergendo, nonostante tutti i tentativi di Gheddafi per neutralizzarla all’interno di un’unica nazione libica. Gheddafi è la Libia, e il rischio è che la sua caduta porti, insieme al cambio di regime, anche a una revisione della statualità (aleggia lo spettro della Somalia).
Fu proprio a Bengasi che il 30 agosto 2008 il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, firmò con Gheddafi lo storico accordo di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia, riuscendo dove tutti i suoi predecessori avevano fallito: dopo rimozioni e auto-assoluzioni durante decenni, l’Italia riconosceva le colpe e i crimini che il suo colonialismo perpetrò contro il popolo libico e fu il presidente del Consiglio in persona a scusarsene con tutti i libici. Dal 2008 Gheddafi ci ha ricordato in diverse occasioni che la firma di quel trattato era stata favorita dalle doti personali del nostro presidente del Consiglio e di fronte a un possibile cambio al vertice del governo italiano le stesse relazioni con l’Italia avrebbero potuto mutare. Pochi giorni fa è accaduto l’imprevedibile: è stato il ministro della Difesa Ignazio La Russa a dichiarare, senza smentite ufficiali il 26 febbraio scorso da Livorno, che il trattato di amicizia con la Libia è virtualmente sospeso, come se fosse stato stipulato con Gheddafi e non per suo tramite con i libici.
Se al momento della firma del trattato nel 2008 rimaneva qualche dubbio sulla genuinità delle scuse italiane che venivano scambiate con interessi strategici nel settore energetico (petrolio e gas) e in quello del controllo dell’emigrazione, oggi possiamo essere certi che la sicurezza dei confini era la vera posta in gioco. Non è neppure un caso che in questi giorni i titoli dei giornali e delle trasmissioni radiotelevisive insistano tanto sul possibile arrivo di migliaia di profughi sulle nostre coste, invece di interrogarsi prima sulla crisi libica. I rimproveri rivolti dal ministro dell’Interno Roberto Maroni a un’Europa assente nello scacchiere mediterraneo riguardano infatti e prima di tutto l’allerta profughi. Gheddafi non è più in grado di controllare i flussi dell’emigrazione e dunque anche il trattato non ha più ragione di essere. Viceversa, sarebbe contradditorio dire di sospenderlo per tutelare i diritti umani dei libici.
Peccato, perché il trattato italo-libico del 2008 per molti libici e forse italiani rinviava a una dimensione più profonda dei rapporti tra i due Paesi al di là degli interessi economici o di sicurezza. Le storie dell’Italia e della Libia nel bene e nel male si intrecciano profondamente attraverso quello che fu il nostro colonialismo. Quel che sorprende anche un viaggiatore informato di passaggio a Tripoli è la persistenza del passato coloniale nel presente: non sono solo i palazzi, le strade e i nomi a ricordare la presenza italiana, ma soprattutto le persone che si incontrano, i loro discorsi e anche qualche loro abitudine. Difficile che un libico, dopo aver saputo di aver davanti un italiano (ammesso che vi sia bisogno di dirlo), non ricolleghi la singola persona a una storia più generale e comune. Nonostante il ricordo del colonialismo rinvii a un periodo per tanti aspetti negativo, per l’assenza di libertà, la subordinazione razziale e la dipendenza economica, rimane l’idea che l’Italia divenne parte della storia delle società colonizzate e che in prospettiva continui a esistere un legame particolare con l’ex madrepatria.
Il trattato del 2008 doveva significare soprattutto il riconoscimento da parte italiana di questa storia comune tra i due Paesi, mentre la sua sospensione pare negarla ancora una volta. Il 2011 è l’anno nel quale ricorre il 150° anniversario dell’unità d’Italia che verrà festeggiato solennemente il prossimo 17 marzo, ma nel 2011 cade anche il 100° anniversario della cosiddetta guerra di Libia combattuta dall’Italia contro l’allora Impero ottomano: quanti se ne ricorderanno?
*docente di Storia e Istituzioni dell’Africa presso l’Università di Pavia