L’impresa italiana zoppica ancora, o forse no. Nel 2010 sono state aperte 11mila procedure fallimentari, più 20% sul 2009. A dirlo è l’Osservatorio trimestrale sulla crisi d’impresa del Cerved, ex database delle Camere di commercio nazionali (oggi gruppo nato dall’unione di Centrale dei Bilanci, Cerved, Lince, Databank, Finservice, Consit e Pitagora). Viceversa, i numeri elaborati da Unioncamere, mostrano una realtà differente: il saldo tra imprese nate e morte l’anno scorso, è positivo per 72.530 unità, in crescita dell’1,2% rispetto al 2009. Il bilancio migliore dal 2006. Al contrario, per il Cerved, il dato del 2010 è il peggiore da quattro a questa parte. Il lasso temporale è lo stesso (dal 2006 ad oggi) ma il risultato è l’opposto. L’origine di queste cifre, ironia della sorte, è la medesima: i registri delle camere di commercio cittadine. La contraddizione, guardando i dati in profondità, è soltanto apparente, ma potrebbe trarre in inganno. Il tema non è nuovo, ma è ugualmente importante: come districarsi nella giungla di dati economici di cui le cronache quotidiane sono piene zeppe? Con un po’ di pazienza è possibile capire perché nei talk show politici ogni volta ognuno citi numeri diversi e chi abbia ragione.
Nel caso specifico, il dato Unioncamere si scompone così: nel 2010 le imprese registrate erano 6.109.217 (6.085.105 nel 2009, 6.104.067 nel 2008). Di questi 6 milioni – specificano dall’ente che rappresenta il sistema camerale nazionale – 5.281.934 sono imprese attive, mentre le restanti si suddividono tra imprese che hanno sospeso momentaneamente l’attività escluse quelle stagionali (9.162), temporaneamente inattive per questioni amministrative (448.844), con procedure concorsuali (121.456) oppure in fase di scioglimento o liquidazione (247.821). Se, dunque, le nuove iscrizioni nel 2010 sono state 410.736, e le cessazioni 338.206 (da qui il saldo attivo di 72.530), queste ultime non comprendono, a dispetto del senso comune, i fallimenti.
Marcello Gaboardi, avvocato del foro milanese e dottorando in Diritto dell’impresa all’Università Bocconi, spiega il perché: «La cancellazione dal registro delle imprese avviene soltanto in seguito alla liquidazione di un’azienda, poiché a chiusura di una procedura fallimentare una società potrebbe ritornare alla solvibilità e dunque alla piena credibilità sul mercato». Al contrario, è la liquidazione, quando cioè una società non vuole o non può continuare la propria attività, a comportare una cancellazione dal registro. Ad esempio, un imprenditore che va in pensione e cambia la ragione sociale dell’impresa in favore del figlio, comporta una cancellazione dal registro e una nuova iscrizione.
Visto da questa prospettiva, il dato fa meno paura: le 11mila imprese che hanno attivato la procedura fallimentare (il dato del Cerved) su 6 milioni, significa lo 0,18 per cento. Una cifra irrisoria. Tanto più che gli effetti della riforma del diritto fallimentare approvata il 16 luglio 2006, modificata dal decreto “correttivo” 169 del 12 settembre 2007, entrato poi in vigore nel 2008, sono ancora al di là da venire. Per questo, in media ci vogliono 8,6 anni per chiudere una procedura da quando si decide di portare i libri in tribunale. Nel 2001, va sottolineato, la procedura durava mediamente 6 anni. Insomma, per tornare alla differenza fra i dati del Cerved e quelli di Unioncamere: sono entrambe giusti ma bisogna, ogni volta, andare a vedere come sono calcolati per capire le discrepanze.
A destare qualche timore, infine, è un altro fattore: la dinamica geografica dei fallimenti. Da macchia di leopardo a macchia d’olio. «Se nel 2009 l’impennata dei fallimenti aveva riguardato soprattutto le aree del Nord (con incrementi del 35% nel Nord Ovest e del 28,4% nel Nord Est), nel 2010 il fenomeno risulta più omogeneo: le procedure sono cresciute a un tasso del 21,5% nel Nord Ovest, del 20,9% nel Centro, del 18,4% nel Nord Est e del 17,4% nel Sud e nelle Isole», si legge in una nota diffusa stamani dal Cerved.
In termini di settori produttivi, 5mila società che operano nell’industria hanno dichiarato bancarotta tra il 2009 e il 2010, in particolare i mezzi di trasporto, la gomma e le materie plastiche, la manifattura e la meccanica. In seconda posizione l’edilizia, con una crescita del 15% anno su anno. Nella top ten delle provincie a più alto tasso di possibili default, calcolate dall’indicatore Insolvency ratio su 10mila imprese operative, si trova rappresentato praticamente tutto lo stivale tranne il tacco e la punta: al primo posto c’è Ancona, con un tasso di fallimento pari al 39,3 nel 2010 (29,7 nel 2009), Pordenone, 36,1 (39,2 nel 2009) e Milano, 34,4 (27,8 nel 2009). A seguire Lucca, Treviso, Prato, Lecco, Terni, Bergamo e Novara. Un quadro non troppo esaltante. Calma, però: stiamo pur sempre parlando dello 0,18% del tessuto imprenditoriale italiano.