Ma l’occidente vuole davvero cacciare il Colonnello?

Ma l’occidente vuole davvero cacciare il Colonnello?

La risoluzione 1973 delle Nazioni Unite approvata questa notte rischia di essere un compromesso al ribasso dagli esiti molto incerti. Gli obiettivi non sono né chiari né ambiziosi. Ad esempio il provvedimento cita esplicitamente nel secondo paragrafo la situazione di Bengasi, roccaforte dei ribelli, ma sulle finalità specifica solo che l’intervento «ha l’obiettivo di proteggere i civili da ulteriori danni [the objective was solely to protect civilians from further harm]». Senza dire nulla ad esempio su Misurata, 200 chilometri ad est di Tripoli, ancora in mano ai ribelli, dove 25 persone sarebbero rimaste uccise solo oggi. Gli aerei autorizzati dall’Onu si occuperanno solo di Bengasi, mille chilometri a est dalla capitale, o anche di Misurata? Se infatti Bengasi è la seconda città del Paese per importanza, Misurata è la terza.

Questo per citare solo uno dei punti lasciati aperti dal voto di questa notte. Un altro elemento che non viene minimamente specificato è se il fine di questo conflitto includa la cacciata del Colonnello. Le parole più forti nei suoi confronti le ha dette questa notte l’ambasciatore tedesco Peter Wittig, che però rappresenta un Paese che non si è allineato a Londra e Parigi e si è invece astenuto: «L’intenzione del Consiglio di sicurezza è di bloccare la violenza in Libia e mandare un messaggio al Colonnello Gheddafi e ai suoi associati che il tempo è finito e devono lasciare subito il potere». Niente di più. Ma quindi le due storiche potenze coloniali in Africa che hanno fatto da motore alla risoluzione Onu, Francia e Inghilterra, mirano solo a difendere i civili e a una spartizione del Paese, magari tenendosi la Cirenaica, o anche a cacciare il Rais? Questo quadro sembra voler dire che la risoluzione mira solo a bloccare la situazione sul terreno così come è ora.

Se la risposta fosse la prima, che si mira solo alla difesa dei civili, i problemi sono due: il primo di carattere pratico, il secondo più teorico. Quello di carattere pratico è che mirare solo a proteggere i civili, senza truppe di terra, in questo quadro potrebbe rivelarsi illusorio. Gli esperti militari spiegano che, senza l’appoggio di specialisti sul terreno che individuano e indicano gli obiettivi, gli attacchi aerei rischiano di essere ciechi. I talebani nel 2001 sono stati sbaragliati in questo modo. Fra l’altro l’aviazione libica è ben equipaggiata: ha 18mila uomini, una trentina fra elicotteri d’attacco e aerei da trasporto russi oltre a uno squadrone di elicotteri (sempre russi ma più leggeri) e addirittura risulta possedere quattro Boeing Chinooks. È il punto forte rispetto a un esercito di 50 mila persone, per lo più di leva, che è invece più dozzinale. Ma se ora in Libia si sbaglia, se si ammazzano per errore dei civili, si potrà andare davanti alla comunità internazionale a dire che si tratta di «danni collaterali» quando questa guerra doveva espressamente servire proprio a difendere loro, i civili inermi? Possono i ribelli libici, disorganizzati come sono, supplire a questa mancanza di informazioni sul terreno e fornirle loro? A meno di non cascare un’altra volta nella retorica dell’intelligence tecnologica (satelliti) che può supplire quella umana. Un argomento che dopo l’11 di settembre dovrebbe essere stato riposto nel cassetto per sempre. Per fare un solo esempio: la semplice no-fly zone sulla Bosnia non impedì il massacro di Sebrenica nel giugno 1995 quando morirono 8 mila civili.

Il secondo punto è la natura stessa del conflitto. Da Noriega a Milosevic passando per Saddam le guerre moderne sono state una caccia all’uomo. Senza avere più il coraggio di chiamarle «guerra», ma «missione umanitaria» o simili. Per questo, se un tempo era chiaro che in un conflitto i civili sono le prime vittime, ora invece si chiamano appunto «danni collaterali» nell’illusione di poter colpire solo i militari. Quindi, in questo bagno di ipocrisie, se il fine non è solo la spartizione del Paese, ma anche di cacciare Gheddafi, si abbia il coraggio e la forza di affermarlo, di far capire che anche questa in Libia è una caccia all’uomo. A meno che non si tratti solo di tattica e che si miri a lasciarlo al suo posto, anche se indebolito, perché si ha paura che il Paese caschi nelle mani sbagliate o semplicemente nel caos. Sarebbe un terribile errore: un Gheddafi indebolito, a capo di un Paese spezzato, non sarebbe necessariamente un’alternativa auspicabile, anzi. Finora quando messo nell’angolo ha reagito come un cavallo pazzo e l’appellativo di “mad dog” che gli diedero gli americani nasce proprio da questo.

Restano poi almeno tre questioni. L’occidente interviene tardi e male dopo che il segretario alla Difesa Usa Robert Gates aveva detto esplicitamente in un discorso a West Point il 25 febbraio che «qualsiasi futuro segretario alla Difesa che consigli al Presidente di mandare di nuovo un grosso contingente di truppe in Asia o nel Medio Oriente dovrebbe avere la testa esaminata». Un commento in parte ritrattato nei giorni seguenti. Certo la risoluzione dice che non verranno inviate truppe ma se si aggiungono alla parole così chiare di Gates i tagli alla Difesa britannica, il cui budget è stato ridotto del 10% circa a causa della crisi, si capisce che questo occidente che si imbarca in una missione simile è un occidente che abbaia perché ha parecchi problemi a mordere. E la paura che ha la Francia, motore primo della risoluzione di questa notte, di essere scalzata dalla Cina in Africa l’ha già portata a fare diversi errori, prima con l’Unione per il Mediterraneo che non è mai andata da nessuna parte, poi con l’imbarazzo seguito alla cacciata di Ben Alì dalla Tunisia.

La seconda questione è che la Libia è un Paese Opec che ha le maggiori riserve di petrolio in Africa seguita da Nigeria e Algeria. Secondo l’Oil and Gas Journal, citato dalla US Energy Information Administration, ha riserve per 46,4 miliardi di barili (dato al gennaio 2011), le maggiori del Continente nero e le esportazioni sono in netta crescita da quando Tripoli è tornata nella comunità internazionale (vedi il grafico). Gli interessi francesi e inglesi sono molto probabilmente umanitari, ma è naturale chiedersi fino a che punto.

Il terzo ed ultimo punto riguarda invece una figura chiave come Musa Kusa, ministro degli Esteri di Gheddafi oltre che figura leggendaria nel mondo delle spie, essendo stato capo di quelle libiche. Kusa, come ricostruito di recente in un articolo di Newsweek, è la vera eminenza grigia del regime. Ha preso un Master alla Michigan University negli anni ’70, i suoi figli sono nati negli Usa e sono cittadini americani. È considerato il vero ufficiale di collegamento fra Ovest e Libia capace di tutto per tenere al potere il suo capo. Il ritorno del Colonnello nella comunità internazionale fu guidato da lui. L’ex capo della Cia George Tenet, nel suo libro di memorie, descrive le negoziazioni con questo oscuro personaggio come «un’illustrazione del mondo surreale in cui abbiamo dovuto operare». Ma secondo lo stesso Tenet molti nell’Agenzia ritenevano che fosse stato proprio lui, Kusa, a organizzare la bomba sul volo Pan Am 103 che uccise 270 persone sul cielo di Lockerbie. Ed è sempre lui che ha guidato le negoziazioni sul petrolio con le potenze occidentali. Quello che ha toccato è diventato oro: l’agente Mark Allen del servizio segreto inglese, l’MI6, lavorò a stretto contatto con Kusa. Ora è Sir Mark Allen ed un è un consulente ben remunerato di Bp. Insieme al petrolio Kusa è anche indicato come una fonte importante di informazioni su Al Qaeda che la Libia ha scambiato con l’occidente per essere riammessa nel consesso internazionale. All’inizio del conflitto Kusa ha smesso di rispondere al telefono agli americani mentre rispondeva ancora agli inglesi. La particolarità è che molte delle figure principali del regime hanno visto le loro proprietà all’estero congelate dal Tesoro Usa, ma non lui. E anche nella risoluzione approvata questa notte il suo nome continua a non figurare fra quelli colpiti da sanzioni. Nel caos libico la figura di Musa Kusa continuerà ad essere una di quelle determinanti.

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