Tra indumenti rattrappiti e reciprocamente contagiati dal disuso, in rimasugli secchi di sangue e saliva: in fondo a un sacco dimenticato per anni nei magazzini del Tribunale, germogliano le nuove verità della storia criminale di Roma. Prima le indagini e il processo a carico di Raniero Busco, l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni condannato in primo grado per omicidio volontario, ora l’arresto di Manuel Winston Reves, già collaboratore domestico di Pietro Mattei e Alberica Filo della Torre.
Al passo di decenni contaminati da intrugli cospirativisti e goffe minimizzazioni, ormai un nuovo parametro è stato stabilito per correggere la miope fallacia delle inchieste: laddove il macroscopico è sfocato, confuso – e a volte oscuro, inappellabilmente compromesso – sembra non fallire il microscopio del Ris. Uno sguardo fin dentro alla doppia elica del Dna, che conserva il mistero della vita e a questo punto, si direbbe, anche quello della morte. La verità è questione di cellule.
Un piano sequenza lungo vent’anni, partito dai verdissimi campi dell’agro romano – come scrisse Gadda inzuccherati da la brina – ha raggiunto il minimo termine del mistero dell’Olgiata dove, il 10 luglio del 1991 fu trovata morta, contusa e strangolata, la contessa Alberica Filo della Torre, che proprio quel giorno si accingeva a celebrare il decimo anniversario di matrimonio con il costruttore Pietro Mattei. L’Olgiata negli anni sessanta fu nota per l’allevamento in cui crebbe il “cavallo del secolo” Ribot, poi per essere una sorta di Beverly Hills de’ noantri, con numerose residenze dei vip, e infine per quel tetro, misterioso delitto. Ora le tv tornano a mostrare citofoni e muretti di tufo, riprese aree di patii e piscine, vecchie foto segnaletiche. La campana suona per Manuel Winston Reves. Proprio come le tracce della saliva di Busco lo hanno finora condannato per il delitto Cesaroni, il filippino di casa Mattei è stato arrestato grazie alla prova del Dna, a cui era già stato sottoposto, in qualità di indagato, subito dopo il delitto. Le tracce del suo sangue sono su un lenzuolo. Come spesso avviene in questi casi, le falle apparentemente chiuse da nuove evidenze scatenano molte domande e perfino autentici dilemmi.
Alcuni quesiti riguardano il caso specifico, altri questioni di ordine generale. Quanto alla prima categoria, è agevole compilare a spanne un decalogo, per lo più lasciato intatto dalle nuove mosse della procura: perché il primo ad arrivare sulla scena del delitto fu Michele Finocchi, capo di gabinetto del Sisde poi implicato, nel 1993, in una storiaccia di fondi neri del servizio segreto? Un amico di famiglia, è la risposta ufficiale. Accontentiamoci.
E’ vero che tra amici di famiglia si gestivano anche operazioni finanziarie legate alla malversazione di Finocchi?
Chi è definitivamente Roland Voller, specializzato in fatue rivelazioni, già depistatore del caso Cesaroni, improvvisamente ascritto alla categoria dei ben informati sul fatto?
È vero che a questo Voller furono consegnati carteggi riservati sull’omicidio della contessa?
Perchè?
Quel giorno la contessa aveva avallato un’operazione da centinaia di milioni per una sua società? Nulla a che vedere con la sua triste sorte?
È del tutto chiaro il ruolo dell’imprenditore di Hong Kong, tale Yung, presunto esperto di arti marziali?
Qual era la natura del suo rapporto con Alberica?
Che ruolo hanno avuto le illazioni su una presunta esuberanza affettiva della contessa e di sue presunte relazioni extraconiugali?
Chi è questo Manuel Winston Reves, oltre che una macchiolina di sangue rinsecchito? Sono così consistenti gli indizi generali a suo carico, pur in presenza di un importante riscontro probatorio?
Quanto ai dilemmi di ordine generale, è sempre più forte la suggestione di un sistema che va verso gli scenari del “Rapporto di minoranza“ di Philip K. Dick (solo un poco ammorbidito dalla versione cinematografica di Steven Spielberg): una scienza vindice che sopravanza tempi, modalità, tutele dell’indagato. In particolare, di fronte a una valutazione entusiastica della scoperta scientifica – che è e resta utilissima – rischia di verificarsi, piuttosto proditoriamente, un’inversione dell’onere della prova, per cui è l’imputato a dover dimostrare la sua innocenza e non la pubblica accusa a sostenere l’edificio della colpevolezza. L’altro elemento è il tempo: dopo dieci anni si è autorizzati a gettare nella spazzatura le vecchie bollette, ma dopo vent’anni si può essere chiamati – a pena della libertà – a chiarire passo passo un lontano drammatico mattino d’estate; e laddove si fallisca nella ricostruzione, a risponderne pesantemente. Il dibattito mediatico, invece, ha spesso la caratura di quello sull’opportunità o meno della moviola nei campi di calcio: dna sì, dna no.
Il principio del ne bis in idem sit actio, per cui non si può essere processati due volte sullo stesso addebito, è solo una formula o un principio di civiltà giuridica a cui derogare con somma attenzione? C’è poi il rischio che l’archiviazione o l’assoluzione, a fronte di progressi scientifici sempre più vertiginosi, vengano percepiti come mere pause di un destino comunque segnato, per cui non è mai possibile, per gli innocenti, lasciarsi alle spalle un equivoco o una persecuzione.
E poi, soprattutto, occorre che la foga del microscopio tenga ben conto, fino a prova definitivamente contraria, degli elementi macroscopici: in entrambi i casi la presenza di Dna potrebbe essere dovuta a cause estranee al delitto, in entrambi i casi i presunti colpevoli sono stati a lungo cittadini irreprensibili, per i quali si stenterebbe a trovare un senso al dettato costituzionale di una pena che deve “tendere alla rieducazione del condannato”. Altrimenti si riparerà inevitabilmente su soluzioni pilatesche: una botta al cerchio e l’altra alla botte, il primo grado all’accusa e l’appello alla difesa. Oppure una condanna troppo mite per un colpevole, ma intollerabile per un innocente. E la verità? In fondo a un sacco. In un cul de sac, cioè.