Il problema non è mai il bicchiere, ma ciò che dentro si versa. Così è per il 17 marzo. Il problema non è il contenitore ma il contenuto. E il contenuto, in gran parte, è definito da coloro che contestano il contenitore. Diciamolo: senza la Lega Nord nessuno si sarebbe ricordato del 150° anniversario. Il problema è che nemmeno la Lega sa che cosa fare. Altrimenti, anziché uscire dalle aule o rivendicare una festa per sé – un’altra festa inventata – e dunque sostenere l’esistenza dei propri argomenti con la propaganda, proporrebbe dei contenuti e non dei gadgets. Così come per dimostrare di esistere i cantori dell’unità devono chiamare a raccolta il fronte unico anti-leghsta, analogamente i leghisti devono suonare la zampogna dell’antiunità. Ma entrambi non parlano di futuro. A 150 anni di distanza, siamo ancora lì a litigare col passato.
La giornata di oggi ha un cerimoniale. Nell’ordine: 1) Saluto al Paese (ore 7.00: alzabandiera in tutto il Paese, per onorare l’Alba dell’Italia); 2) Parlamento in seduta straordinaria (Saluto del Parlamento a Camere riunite a tutto il Paese nel giorno del suo anniversario); 3) Roma, evento in Piazza (ore 19.00: in Piazza del Popolo avverrà un lancio di colombe seguito da un concerto di musica leggera); 4) Concerto celebrativo (Ore 21.00 – Teatro dell’Opera di Roma: il Maestro Riccardo Muti dirigerà il Nabucco, la più risorgimentale delle opere di Verdi); 5) Evento finale (Festa finale con l’esplosione di fuochi d’artificio in tutte le piazze italiane).
Questo anniversario contempla anche una geografia della commemorazione. Già iniziato nel maggio dello scorso anno con il viaggio del Presidente della Repubblica a Quarto, il pellegrinaggio nei luoghi dell’Unità proseguirà e toccherà tappe significative delle diverse “anime del Risorgimento”: l’11 maggio a Marsala per lo sbarco dei Mille; il 16 giugno a Crotone per i Fratelli Bandiera; il 24 giugno a San Martino della Battaglia; il 4 luglio a Caprera alla tomba di Garibaldi; il 4 agosto a Comacchio in memoria di Anita Garibaldi; il 5 settembre a Pisa alla Domus Mazziniana; il 26 ottobre a Teano.
Un calendario fitto di scadenze, dove, non è previsto il 20 settembre a Porta Pia. In compenso, è prevista l’apertura del Museo di San Pancrazio a Roma in memoria della Repubblica Romana, forse l’esperimento costituzionale e politico più avanzato ed europeo di tutti i moti del Risorgimento. Sicuramente quello più dissacrante e simbolico rispetto al “senso comune” della cultura italiana: il primo articolo della Costituzione della Repubblica romana prevedeva infatti dissoluzione del potere temporale del Papa.
Si potrebbe dire che ormai è iniziata un’epoca in cui la laicità è una pratica culturale vera, non confusa con la società delle buone maniere o delle citazioni politicamente corrette. Ma le risposte sguainate, arrabbiate, comunque saccenti al sapido libretto di Sergio Luzzatto (Il Crocifisso di Stato, Einaudi), dicono che la nostra realtà è molto più problematica e inquieta. E obbligano a ripensare a questa giornata come la spia indiziaria di un malessere profondo.
Molti hanno detto che quella di oggi è una festa inventata, che non ha fondamento, che dovremmo lavorare per non festeggiare. Lo Stato nazionale – qualsiasi dimensione abbia e a qualsiasi principio si ispiri – esige un proprio calendario, ovvero richiede che ci siano giorni di festa in cui non celebra se stesso, ma ricorda la storia della sua formazione. E’ un calendario inventato per definizione, nel senso che ci sono gli eventi accaduti per davvero, ma quello che poi occorre che si definisca è un’identità, attraverso i simboli che a quell’evento si riconducono e lo rendono memorabile. E quelli rispondono a una logica rivolta al futuro, più di quanto non sia rispettosa del passato.
Di tutta questa giornata noi invece ricorderemo essenzialmente i malumori della Lega, i malesseri degli altoatesini, le rampogne dei cattolici tradizionalisti che sostengono che l’Unità d’Italia fu una rapina, un sopruso, comunque il trionfo dei nemici della nazione. Nei mesi scorsi sarebbe stato fondamentale che si fosse costruita non una retorica, ma una storia concreta dell’Unità in cui non veniva taciuto niente, e si rifletteva sui nodi problematici della storia che ci sta alle spalle, guardando concretamente al nostro presente, inquieto, incerto, privo di un disegno, senza un progetto.
Non è un caso che in quest’occasione sia sparita completamente dall’agenda di discussione tutto il conflitto interno: quello sociale, quello culturale, quello sulla laicità dello Stato. In breve è sparita l’Italia reale, quella delle rivolte contadine e della pellagra, quella dell’analfabetismo e delle condizioni di vita delle campagne, quella della miseria e degli scandali politici e finanziari che hanno segnato la lunga storia del nostro Paese. In risposta a un disincanto trionfante ha finito così per ritornare dalla finestra quello che con fatica nel secondo dopoguerra era stato respinto dalla porta: un’idea del Risorgimento di tipo nazionalista, preoccupato più di mettere in piedi un vestito di Arlecchino che un progetto di sviluppo e di futuro. I conti sono ancora da fare con ciò che rimane dell’Italia industriale.
A Torino – luogo tradizionale dove in tutte le occasioni il paese è tornato a celebrare il luogo da cui tutto cominciò, sia nel 1911 in occasione del cinquantenario sia nel 1961 in occasione del centenario – le celebrazioni per i 150 anni si concentrano sulla lenta storia che abbiamo alle spalle, come capita per la la mostra che si apre oggi alle Officine Grandi Riparazioni, o a celebrare la creatività (ed è la mostra ai Giardini a Venaria Reale). Ma non c’è, come sarebbe logico nella patria dell’Italia industriale, uno sguardo sulle linee industriali del paese. Domani insomma l’idea che il passato, o ancora peggio la tradizione, sia una garanzia di futuro.
La verità è che davanti a noi non intravediamo un futuro ad attenderci. Questa è uno slancio che dovrebbe arrivare da diversi soggetti. Dalla politica, prima di tutto. Ma lì, eliminata la retorica, non si vede niente. È anche per questo che prevale la nostalgia di ciò che c’era prima, e si fa finta che sia possibile ricominciare tutto daccapo, convinti che la storia ci dica chi siamo, mentre il problema è aprire un atlante e guardare i flussi umani, di merci, di reti comunicative. Il futuro sarà di chi sa la geografia e sa leggere le mappe, tanto bene da poter contribuire a scriverle. In Italia, invece, si pensa che siano un oggetto estetico, da parete. Anziché come un testo da studiare e su cui ragionare le osserviamo come opere d’arte da ammirare. O come quadri brutti, di quelli che si mettono in soffitta, perché non ci piacciono.