Su Parmalat parlano tutti, tranne Marcegaglia

Su Parmalat parlano tutti, tranne Marcegaglia

Sulla vicenda Parmalat-Lactalis le reazioni del giorno dopo non si sono contate. Volendo classificarle c’è un campionario vastissimo. Ci sono giudizi decisamente gasati, altri lisci, e pochi centrati e effervescenti quel che basta. Tra i gassati un posto di rilievo spetta a Fabio Ranieri, parlamentare parmigiano della Lega Nord e segretario della Commissione Agricoltura alla Camera. A suo dire «un’importante azienda di lavorazione del latte si appresta a lasciare il nostro territorio. La scalata di Lactalis era prevedibile. Forse qualcuno avrebbe dovuto pensarci prima, invece di restare a guardare. Non accettando che un’ennesima grande azienda lasci la Padania senza che alcuno batta ciglio, invito il Governo a intervenire. La Parmalat deve restare italiana così come deve essere garantito un futuro certo a tutti i produttori di latte che fino a oggi hanno conferito la materia prima all’azienda di Collecchio».

Più sul liscio le reazioni di Confindustria. L’arrivo in Italia di investitori stranieri non è un problema, ma l’importante è che le imprese italiane non siano soltanto preda, aveva detto il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. «Se vogliamo un sistema paese che abbia la capacità di attrarre investimenti, non dobbiamo stupirci se poi arrivano capitali stranieri. Il problema è non essere solo preda. Non dobbiamo creare artificialmente campioni nazionali, ma puntare ad aumentare le dimensioni delle aziende e avere accesso ai capitali finanziari. Dobbiamo organizzarci meglio per avere aziende più forti e competitive, che si mettano insieme e abbiano a disposizione capitali». Parole pronunciate qualche giorno fa e seguite da giornate di silenzio, rotte solo da un comunicato confindustriale, ieri sera, che stigmatizza gli interventi mirati come quello cui si è arrivati sull’onda dell’operazione di Lactalis.

Tra i pochi interventi “sobri” quello pronunciato dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta: «Bisognerebbe ritrovare un po’ di spirito imprenditoriale» ha scandito in risposta alle critiche di alcuni imprenditori laziali molto più attenti a discutere su quel che il governo non ha fatto che di politica industriale. Nel giro di due settimane l’approdo Oltralpe del controllo di Bulgari e di Parmalat conferma che i grandi imprenditori del nostro Paese, quelli esistenti, non solo non sono in grado di lanciare offensive all’estero, come capitava qualche decennio fa, ma non sono neanche più disposti a comprare sul mercato quelle che potrebbero essere ghiotte occasioni e alla fin fine lasciano spazio ad investitori di altre nazionalità, in questo caso francesi. Nel caso di Bulgari il gruppo Lvmh è riuscito a convincere la famiglia Bulgari a vendere l’azienda offrendo 4,5 miliardi di euro, sia pure in azioni Lvmh non vendibili prima di un triennio. Si tratta di una soma che vale più di 100 volte gli utili netti di Bulgari, un’offerta stratosferica. 

Ma il lusso costa caro si sa. Nel 1999 Bernard Arnault valutò Fendi quasi duemila miliardi di lire, oltre 50 volte gli utili. Il latte costa molto meno. Nel caso di Parmalat, nonostante gli strepiti del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che aveva minacciato un decreto-legge per limitare il diritto di voto di soggetti stranieri, e’ bastato mettere sul piatto 744 milioni di euro per il 15% di azioni. Una cifra che la ricca Ferrero pur tentata dall’acquisto (e con Intesa alle spalle, pronta a diventare il perno finanziario dell’operazione) non ha avuto il coraggio di mettere. Non c’è da stupirsi, pur essendo una multinazionale, Ferrero è controllata dalla famiglia, è sempre cresciuta per linee interne senza acquisizioni, non è quotata in Borsa. Né per Bulgari né per Parmalat si è fatto avanti un acquirente italiano. Chi per Parmalat guardava a Granarolo, il gruppo padano controllato dalla Lega delle cooperative, è rimasto deluso. Ma le coop, splendido esempio del nostro sistema imprenditoriale e sociale, non hanno capitali. Non riuscirono a trovarli quando erano in vendita i pezzi del gruppo Sme, poi finiti ai francesi via Benetton, non sono riusciti oggi. La verità è ancora più amara e va ben oltre il mondo coop e il settore alimentare. Il nostro “capitalismo bonsai” non trova neppure nei piani alti forze imprenditoriali e finanziarie capaci di metter mano al portafoglio per operazioni di sistema, anche quando sono a prezzi di saldo. L’imbarazzato silenzio di Confindustria si spiega anche così. 

Il problema non è che Parmalat sia oggi controllata dall’invasore francese o che Edison rischi di essere acquisita da EDF e via dicendo. Non esiste un complotto francese contro l’Italia. Il problema è il sistema Italia, la sua classe politica e le sue classi dirigenti anche economiche. Capaci di strepitare, di minacciare misure politiche o addirittura fiscali, non di occuparsi delle radici da cui nascono i problemi che stanno portando al declino l’economia italiana. La questione dell’italianità riesce a vivacizzare la politica italiana, Alitalia insegna, ma non riesce ad andare oltre qualche cortina fumogena. I marchingegni giuridici non bastano a contrastare i soldi veri e le operazioni di sistema non si fanno alzando la voce, oltretutto a giochi fatti.
Per anni ci hanno detto che piccolo è bello. In realtà non era sempre vero, e spesso piccolo era quello che era rimasto dopo aver azzerato le grandi imprese presenti nel paese. Progressivamente sono state smantellate le filiere italiane del farmaceutico, dell’alimentare, e ora è la volta della moda-abbigliamento. Per non parlare della grande distribuzione e, siamo ai giorni nostri, dell’auto. La stagione dei capitani coraggiosi sembra essersi chiusa precocemente. Curiosamente a fronte della crescita degli investimenti esteri in aziende italiane calano gli impegni di investitori istituzionali esteri in fondi di private equity nostrani. La “campagna d’Italia” se esiste prende spunto dalle debolezze della struttura d’impresa e dall’incapacità di fare sistema. Problemi di vecchia data che non si risolvono con il protezionismo o forzando le regole.