L’agenda politica la detta il tasso di litigiosità presente nel nostro Paese. È tutto da dimostrare, invece, che le vere emergenze siano al primo posto nella lista dei problemi da affrontare. Una affermazione di parte? Non credo.
Alla domanda quale questione oggi è in contrasto con il dettato costituzionale, probabilmente la risposta più frequente sarebbe l’amministrazione della giustizia. Non è questa, infatti, la notizia, o l’oggetto del contendere che divide e spacca verticalmente il mondo politico italiano? Ma non è un’emergenza costituzionale. Prima ne viene almeno un’altra. Ma nessuno di quella fa parola. La questione riguarda l’istruzione, non cosa insegnano gli insegnanti e se ciò che insegnano sia di gradimento ideologico alle famiglie. Il problema è rappresentato dalla scolarità.
Le cifre lasciano poco posto ai discorsi. Stando ai dati del 2008, aggiornati a rielaborati su quelli forniti dall’ultimo censimento generale del Paese (ottobre 2001) il 38% dei nostri cittadini sono fuori dalla Costituzione che come è noto prevede l’obbligo del possesso di almeno otto anni di scolarità. Su circa 60 milioni di italiani 4.500.000 sono forniti di laurea 14-500.000, di titolo medio superiore, 17.000.000 di scuola media e circa 23.000.000 sono privi di titolo di studio o possiedono, al massimo, la licenza elementare.
Il dato già impressionante, risulta ulteriormente appesantito da altri dati e da diverse considerazioni, che riguardano la formazione. Sono dati e cifre che sul tavolo degli esperti esistono da almeno sei anni, quindi non costituiscono l’emersione improvvisa di un pianeta sconosciuto o di un’emergenza imprevista.
1) La nostra condizione non è destinata a migliorare nei prossimi anni, se non molto lentamente, anche con le nuove generazioni scolarizzate: infatti tra il 20 e il 25% degli studenti che oggi escono dalla scuola media inferiore non sa veramente leggere, scrivere e contare.
2) Questo primo dato si accompagna a un secondo dato, non meno allarmante e che non ci fa sperare nel futuro. In Italia, a fronte di una popolazione di 4,5 milioni di laureati, ci sono 6 milioni di analfabeti con un dato riguardante gli analfabeti di ritorno che è in continua crescita. Secondo dati pubblicati nel 2005 dell’Unla (Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo), rappresentano il 10% della popolazione contro il 7,5% dei laureati.
3) Da due indagini internazionali sull’istruzione primaria e la cultura diffusa degli italiani alcune ricerche proposte da Vittoria Gallina, per anni ricercatrice per conto del Centro europeo dell’educazione (Cede), e oggi assorbito nell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione (Invalsi), ha più volte richiamato su una realtà, emerge un dato ancor più disarmante ovvero: cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un’altra, oppure una cifra da un’altra. Trentotto su cento lo sanno fare, ma riescono solo con difficoltà una scritta o una cifra. Trentatré superano questa condizione, ma non vanno molto oltre. Significa che un testo scritto che riguardi fatti collettivi e di rilievo nazionale – per intenderci un qualsiasi articolo di giornale a grande tiratura, quindi per vocazione “popolare” – risulta oltre la loro portata di comprensione e la loro capacità di lettura e di concentrazione (il dato in percentuale si abbassa di parecchio se il testo è costituito anche da un semplice grafico o da una comparazione tra numeri). In questo 38%, il 12% è costituito da laureati.
4) Dai dati precedenti si ricava che solo il 20% della popolazione italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea che collettivamente e unanimemente tutti noi chiamiamo “società della conoscenza” rispetto alla quale, l’80% è chiamato ad assistere, ma è destinato a non entrare.
Proviamo allora a riassumere. Dall’Unità in poi abbiamo avuto il problema cronico dell’analfabetismo, ma l’abbiamo sempre pensato e affrontato come l’indicatore della miseria. Vivendo noi in una società opulenta, pensiamo che contemporaneamente sia scomparso anche l’analfabetismo, Non è così. L’analfabetismo non riguarda solo la miseria, riguarda anche l’idea che collettivamente associa l’istruzione all’utile sociale. Così sono le donne (indifferentemente al sud come al nord) che tradizionalmente nella storia dell’Italia unita hanno registrato il tasso di analfabetismo più elevato, questo perché a lungo sono state fuori dal mondo del lavoro.
Oggi in gran parte l’analfabetismo tocca il mondo degli adulti (attenzione non necessariamente anziani) e riguarda fasce di età ancora attive nel mondo del lavoro, con una percentuale in crescita tra coloro che hanno ancora, almeno sulla carta, una prospettiva di 15-20 anni di lavoro. Questo dato dice due cose essenzialmente.
In prima istanza dice che al di là dello slogan sulla modernizzazione e “internet per tutti”, ci troviamo a vivere una condizione di arretratezza che nasce non necessariamente dalla povertà o dalla miseria (anche se non le sottovaluterei), ma da un cassetta degli strumenti troppo stretta (per non dire inconsistente) rispetto alle sfide che la modernità ci presenta davanti. In seconda istanza non ci sono politiche capaci di invertire il trend. Per averle noi dovremmo avere una cultura e una pratica, soprattutto, della formazione continua e permanente che noi non abbiamo mai perseguito.
Da ultimo, per perseguire una pratica volta alla formazione, dovremmo riconoscere che partiamo da una condizione di “analfabetismo”. Una società che racconta di sé di essere tra le grandi del mondo non ammetterà di doversi iscrivere a un corso di recupero per analfabeti. Forse aiuterebbe truccarli come corsi di perfezionamento di inglese o di approfondimenti all’uso del pc. Ma la sostanza del problema non cambia.