La coalizione dei “volenterosi” sta portando avanti le operazioni militari per imporre la no-fly zone sulla Libia, in attesa che intervenga direttamente la NATO. L’accerchiamento di Bengasi è stato rotto, ma le truppe fedeli a Gheddafi sembrano aver preso Misurata dopo una battaglia che infuriava da molti giorni. I bombardamenti autorizzati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – il 17 marzo scorso, a difesa dei civili della Cirenaica – hanno già provocato i primi morti, altrettanto civili a Tripoli e non hanno mancato di suscitare la presa di distanza di Russia, Cina, Unione Africana e Lega Araba. Appare così in tutta la sua debolezza il compromesso della risoluzione 1973 che autorizza l’imposizione di una no-fly zone sulla Libia, senza però prendere una posizione esplicita verso la cacciata di Gheddafi da Tripoli.
La disponibilità offerta da Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita a partecipare alle operazioni militari ha una portata assolutamente secondaria e non può certo bastare a coprire il carattere marcatamente occidentale dell’operazione in corso in Libia, tanto più che la Lega Araba ha esplicitamente dichiarato che i bombardamenti sono andati oltre il senso della risoluzione concordata. Il rischio è che la Libia si trasformi in un altro Iraq o Afghanistan (che è poi lo stesso di una Somalia senza montagne). Rimane sicuramente giusta e va perseguita con decisione la difesa dei diritti umani e della vita di tanti libici che sono insorti contro il regime, ma lo scenario è troppo complesso e gli interessi in gioco troppo compositi per non far dubitare della completa genuinità delle motivazioni e degli intenti di chi oppone armi alle armi.
In particolare la mossa di Sarkozy che ha fatto di tutto per essere il primo a dare il via alle operazioni militari va messa in relazione diretta con quelle posizioni (neo)imperiali che la Francia vorrebbe guadagnare in Libia e ha sempre più difficoltà a difendere in Africa, scalzata dalla Cina, oggi terzo partner commerciale del continente africano (subito dopo Usa e Francia) e, non a caso, astenutasi a New York sulla risoluzione 1973. Gheddafi ci accusa di “volere il petrolio libico” e almeno su questo è difficile dargli torto: una buona dose di doppiezza è evidente nelle diverse decisioni adottate per la risoluzione delle crisi che stanno scuotendo il mondo arabo. Non si capirebbe altrimenti perché il regime saudita (irrispettoso dei diritti umani quanto il Colonnello Gheddafi, ma prezioso alleato per la strategia statunitense nel Golfo persico) abbia potuto intervenire militarmente in Bahrein per sedare la locale rivolta di popolo contro la dinastia regnante sunnita o perché un’altra protesta popolare contro il regime dello Yemen (dove non c’è il petrolio) non riceva tutta l’attenzione e l’appoggio del caso da parte della comunità internazionale.
Lo spirito di auto-conservazione di Gheddafi e dei suoi accoliti si unisce all’intento dichiarato di evitare la separazione del paese. Il colonnello sembra deciso a trasformare la Jamahiriya (letteralmente, “regime delle masse”) dal vagheggiato governo delle masse, appunto, a una mobilitazione militare di massa, distribuendo armi ai civili inquadrati nei comitati popolari. La “crisi libica” è in realtà una guerra civile dove una parte della popolazione (piaccia o meno dirlo) sta con Gheddafi, in particolare tutte quelle migliaia di persone che sono impiegate nella burocrazia che in uno Stato come quello libico costituisce una delle principali fonti di impiego. Entrambi i contendenti, lealisti e rivoltosi, dichiarano di lottare per una nazione libica unita con Tripoli capitale, ma è evidente il rischio che entrambe le visioni per una nuova Libia risultino male accette per una parte o l’altra di un paese virtualmente spaccato tra Tripolitania e Cirenaica e che l’intervento esterno finisca per acuire questa percezione nella parte “cattiva” del paese.
All’Italia non rimane che festeggiare il centesimo anniversario della guerra di Libia combattuta contro l’allora Impero ottomano con un nuovo intervento militare nell’ex colonia. La baldanza del ministro della Difesa La Russa nel rivendicare all’Italia un ruolo in prima fila – e assolutamente attivo alla pari degli amici francesi, inglese e statunitensi – sconta tutta l’incapacità dimostrata dal nostro paese nel perseguire, con maggiore convinzione, una soluzione politica alla guerra civile libica. In assonanza con quei principi di amicizia e non ingerenza reciproca negli affari interni che l’Italia, per prima, ha dichiarato di ritenere “sospesi” dopo averli sottoscritti con lo storico accordo del 2008.
*Università di Pavia