Alle Generali uno scontro fra deboli

Alle Generali uno scontro fra deboli

Domani il consiglio delle Generali convocato in via straordinaria, a sole tre settimane dall’assemblea degli azionisti, dovrebbe porre la parola fine alle guerre in corso e definire le linee guida della crescita del gruppo. L’obiettivo sembra fin troppo ambizioso, ma alla vigilia il clima sembra sereno e la richiesta di Consob e Isvap di abbassare i toni pare aver sortito il suo effetto: più grazie al fatto che carte e voce alta erano state ampiamente usate nelle settimane scorse che per una reale distensione. La partita è tutta da giocare, i giocatori sono al loro posto e non sembra ipotizzabile si possa rinviare sine die. Si potranno usare toni bassi e non urlati, ma un chiarimento all’interno del vertice è necessario a evitare si arrivi il 28 aprile a una assemblea a copione libero con un presidente, due amministratori delegati e tre vicepresidenti sul palco a raccontare la propria versione. Sei personaggi in cerca di una verità, ma finanza e teatro hanno linguaggi diversi e in assemblea risposte diverse non sono consentite.

Si arriva a questo consiglio dopo una serie di “strappi” che avrebbe imbarazzato qualsiasi società quotata, a maggior ragione una compassata vecchia signora come le Generali che della discrezione e del silenzio aveva fatto le sue rigide regole di vita. Il presidente Cesare Geronzi in un’intervista al Financial Times ha parlato come fosse l’amministratore delegato, tracciando un percorso per la società che non è quello disegnato dall’ad.

Il vicepresidente Vincent Bolloré ha espresso una caterva di dubbi sulla società e si è astenuto sul voto al bilancio 2010. Gli affari e gli accordi presi dal Leone sono apparsi sui giornali, costringendo la Consob e l’Isvap ad intervenire e chiedere lumi. E si potrebbe continuare. Questa escalation (di strappi) ha portato numerosi consiglieri a chiedere un nuovo cda sulla governance, in modo da poter offrire una risposta agli interrogativi sollevati in queste settimane e chiudere un mese di pesanti botte e risposta tra soci e manager durante il quale due amministratori si sono dimessi: oggi è stata la volta di Ana Botin, mentre il presidente di Luxottica Leonardo Del Vecchio, ha lasciato il 21 febbraio.

Le regole e le tradizioni sono saltate, questa volta i panni sporchi si lavano in pubblico e al pubblico gioco forza è consentito prendere posizione a favore o contro i contendenti. Non pesa tanto però il grosso pubblico, che probabilmente dovrà aspettare l’assemblea per avere chiarimenti. Non è infatti molto interessato alla governance, e preferirebbe avere spiegazioni di un andamento del titolo non proprio brillante. Negli ultimi dodici mesi in borsa l’azione ha sottoperformato, per usare un linguaggio tecnico, di quasi 20 punti percentuali rispetto all’indice assicurativo europeo. E anche in termini di dividendi le soddisfazioni rispetto a concorrenti come Axa e Allianz sono magre.

Ma i riflettori saranno puntati soprattutto sul pubblico degli invitati eccellenti, quei protagonisti non presenti in consiglio, tuttavia molto attivi sulla scena finanziaria, che vorrebbero strutture meno litigiose e, come ha detto il ministro Giulio Tremonti, «capaci di organizzare il sistema» come si riusciva a fare nei decenni scorsi. Esagerando, si potrebbe anche sostenere che l’ultima partita delle nomine si gioca domani. Si potrebbe decidere il destino di Geronzi, banchiere navigatissimo (in attesa di giudizio per il crack Cirio) e da anni espressione dell’attuale gruppo di comando vicino a Silvio Berlusconi attraverso Gianni Letta. Geronzi è il miglior interprete di quella rete di interessi politico-finanziari che scandisce la politica e le cronache romane, a volte anche con inchieste giudiziarie. Personaggio politicamente trasversale, non si è mai negato neppure alla sinistra, e su un piano più strettamente finanziario non è proprio in sintonia con il primato bancario degli istituti del Nord.

Sotto questo profilo, la conferma di Geronzi alla guida delle Generali sarebbe di fatto una casella immediatamente sotto il risiko delle nomine degli enti a controllo pubblico. Poco in linea con quella generale richiesta di una governance in sintonia con il mercato che si è alzata da più parti. E anche con quel ‘metodo Aspen’ e il ringiovanimento anagrafico dei presidenti che sembrano aver scandito le scelte di questi giorni. Il Leone di Trieste non è l’Eni, ma è difficile immaginare che il ministero del Tesoro non sia interessato alla partita in corso. Anche qui come a Collecchio i francesi sono in campo, gli interessi nazionali pure e la tentazione di entrare in partita deve essere forte.

Geronzi potrebbe perdere la delega alla comunicazione (l’unico esito concretamente prevedibile del confronto sulla “governance”), mentre è difficile venga messa in discussione la sua posizione: magari con qualche blitz in assemblea. Potrebbero però essere messi sotto accusa i costi della presidenza. Un tema non nuovo a Trieste grazie ai ricchi emolumenti dell’ex presidente Antoine Bernheim, l’arzillo vecchietto ultraottentenne che ricopriva la carica di presidente esecutivo degli scorsi anni. Oggi i 3,3 milioni percepiti dall’ultrasettantenne presidente non esecutivo Geronzi fanno discutere. Cinque volte un compenso congruo, ha scritto l’economista Luigi Zingales. Oltretutto in mancanza di risultati concreti, ha aggiunto, «il problema non è più di Geronzi, ma di coloro che l’hanno proposto (Mediobanca), che l’hanno votato (il consiglio) e che hanno deciso di strapagarlo».

Sotto il profilo del mercato, la posizione del management, sintetizzata nella figura dell’amministratore delegato Giovanni Perissinotto, è più debole che in passato. Il nodo tecnico su cui Vincent Bolloré ha dato battaglia, astenendosi clamorosamente sul bilancio, non è del tutto campato in aria. L’operazione Ppf (una joint venture immobiliare con l’emergente finanziere ceco Petr Kellner) pone alcuni interrogativi, uno su tutti: perché l’ex presidente Bernheim ha trascinato le Generali in un piano immobiliare nell’Est europeo, impegnando la società per esborsi finali da alcuni miliardi di euro?

Può suonare curioso che Bolloré eccepisca su un’operazione messa a punto dal suo stretto alleato Bernheim, ma in questo caso bisogna ammettere che la trasparenza contabile nei bilanci Generali è stata messa in discussione, anche se risultata ampiamente entro i termini della regolarità. In concreto: Perissinotto si trova a difendere un’operazione non sua e attaccabile. Dietro il management delle Generali non c’è più la Mediobanca di Enrico Cuccia: il duo Renato Pagliaro-Alberto Nagel ha evidenti difficoltà ad esprimere una leadership propria nel confronti del binomio Geronzi-Bolloré.

Sullo sfondo del palcoscenico rimangono gli altri soggetti. Il primo è UniCredit che, complice il salvataggio del gruppo Ligresti, ha un peso specifico maggiore grazie alle partecipazioni di Premafin-Fonsai, in Mediobanca. Piazza Cordusio potrebbe riproporsi come nuovo “punto d’aggancio” della filiera Mediobanca-Generali in una logica di ritrovata centralità del sistema bancario. A fianco gli industriali italiani che hanno investito in Generali fra cui Diego Della Valle, Francesco Gaetano Caltagirone, Leonardo Del Vecchio, il gruppo De Agostini. Non è un fronte compatto, ma ha espresso momenti di insofferenza verso l’attuale gestione. Qualcuno ha lasciato la scena, altri hanno avviato l’offensiva contro Geronzi, altri più silenti probabilmente lo appoggiano. In definitiva ce n’è abbastanza perché il possibile armistizio che potrebbe emergere dal consiglio, con l’obiettivo di salvare l’assemblea, sia soltanto temporaneo.
 

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