«Ho fatto un breve calcolo: cinque anni di tasse, di affitto, di libri, di abbonamento ai trasporti, bollette e spese varie fanno circa 10.000 euro. Se a questo ci aggiungiamo il danno biologico (studiando la notte e lavorando di giorno, il mio fisico ne ha risentito) e i danni morali e materiali arriviamo a 20 mila euro che ho intenzione di chiedere all’Università di Palermo e al ministero dell’Istruzione. Mi impegno a reinvestire i soldi del risarcimento in una bella laurea in giurisprudenza. E in un biglietto A/R per Reggio Calabria. Sa com’è… per l’abilitazione”.
Quando in una puntata di Ballarò il ministro Mariastella Gelmini ha detto che «ci sono corsi di laurea, come Scienze della Comunicazione, che sono inutili perché non offrono sbocchi sul mercato del lavoro», Simona Melani, 25 anni, siciliana dal taglio sbarazzino e dall’accento pronunciato, non ci ha visto più e le ha scritto. «Il mio corso di laurea in scienze della comunicazione è pubblico, autorizzato dal ministero da lei presieduto, quindi. E se il mio titolo non vale nulla, scrive, allora io sono stata truffata dallo Stato».
Simona, con un fratello che studia economia, se l’è sentito ripetere centinaia di volte. «Il tuo è un corso di laurea “semplice”, il tuo trenta in Sociologia non vale neanche la metà di un 25 preso da uno studente in diritto penale o di un 18 in anatomia». Eppure all’estero, quando gli italiani partono in Erasmus, succede spesso l’esatto contrario: si sentono dire che sciences de la communication o sciences politiques, per dirla alla francese, sono facoltà rinomatissime e loro, bamboccioni di casa nostra, sono i più bravi. Insomma, quelli che sanno cosa vogliono nella e dalla vita. Proprio come in Italia, dove – ironizza Simona – «ti dicono che non sapevi cos’altro fare e ti guardano come per dire “poveraccio”».
Nel Belpaese, il ministro dell’Istruzione dice quello che dice ma la penisola si riempie di atenei che chiedono 30.000 euro per un “prestigiosissimo” master in comunicazione. Che fare?
«Lavorare e studiare allo stesso tempo. Solo così puoi far fruttare anche una laurea “inutile” come quella in scienze delle comunicazione». Simona guadagna mediamente mille euro al mese «e ci pago affitto, utenze, spesa, vestiti e tutto. Ai tempi degli stage però l’affitto lo pagavano mamma e papà». Si dice “fortunata” anche se ripensandoci ammette che «sì, sono stata brava». Si sta specializzando in comunicazione di impresa e pubblicità e si occupa di marketing, copyright e social media in un’agenzia di comunicazione a Palermo. Ha un contratto a progetto. Merito della laurea? Non proprio. «Se dico “semiotica” mi guardano pensando “ma a che serve?”». La semiotica va applicata. Ma mica te lo insegnano. «Per combinare qualcosa oggi che ho 25 anni, ho cominciato la tiritera degli stage a 16. Il primo tirocinio l’ho fatto a Sciacca. A 20 anni l’ultimo. Ho lavorato a titolo gratuito e questo ha arricchito il mio curriculum. Sono passata dalla comunicazione politica come volontaria e poi sono stata inserita a livello professionale. Ho lavorato anche come free lance organizzando campagne elettorali con i Ds insieme alla giovanile, poi mi sono lanciata nel privato».
Cristina, laureata in linguaggi dei media all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha 25 anni come Simona, una sorella che vuole andare in Canada, e come la collega palermitana intasca più o meno 1100 euro al mese per 40 ore settimanali. Cristina però non ha fatto stage e, anzi, ha cominciato a cercare lavoro solo dopo essersi laureata. Aveva 22 anni. Oggi ne ha 25. Vive a Roma con il suo fidanzato, si è trasferita da Rho, nel milanese. Fa la commessa. Ha iniziato tardi a cercare lavoro perché pensava che per esercitare una professione ci si dovesse prima formare. Laurearsi, dunque. Nessuno le aveva detto che avrebbe fatto meglio a cominciare con largo anticipo. Così, all’improvviso, si è trovata a un bivio: lavorare un po’ qui un po’ lì e trasferirsi a Roma seguendo l’amore o iniziare la trafila degli stage, alla disperata ricerca del lavoro dei sogni?
Cristina ha imboccato la prima strada. Ma ha dovuto rinunciare alla seconda. Anche perché – spiega – per fare uno stage serio delle volte «ti chiedono 4-5 anni di esperienza lavorativa pregressa. Ma come fai a voler fare uno stage se hai già lavorato per 4-5 anni?». Non ha mai smesso di cercare Cristina. «Mando centinaia di curricula al mese ma se rispondono dicono “grazie lo terremo da conto e quando servirà la contatteremo”».
Giovanni, il cugino di Cristina, ama usare l’inglesismo “learning by doing”: imparare facendo. Che come terminologia non è nemmeno male e in lingua fa molto trendy. Tradotto in “italianese”, più cose pratiche fai più è probabile che ti chiederanno di farne altre. Se non pratichi una volta non praticherai mai. Il segreto? «Investire sul personal branding – spiega Simona –. Bisogna essere ovunque: sul web, sui media, in ufficio, all’università, collaborare con l’uno e l’altro, e guadagnare almeno in termini di visibilità». Della serie il prodotto sei tu. «Sì, bisogna applicare tutto su se stessi. Questo perché nel 2011 siamo tutti allo stesso livello, tutti laureati, tutti dottori. La concorrenza è spietata e ci sono tante persone che lavorano gratis. Per farsi pagare bisogna dimostrare che hai qualcosa in più». Ma per sfondare bisogna anche avere voglia, tempo e denaro. «In Italia, invece, appena abbassi la guardia ti sostituiscono. Hanno fatto passare il ragionamento che dietro di me ci sono altre cento persone pronte a rimpiazzarmi». Ma non bisogna mollare. Perché, per dirla con Simona, con un po’ di costanza, il curriculum funziona. «Ho inviati cento curricula e mi hanno chiamato in 10 ma una piccola parte di bamboccioni in Italia c’è. È comodo trovare tutto fatto. Sono scelte di vita».
Il 1° maggio Simona non lavorerà. È domenica ma anche se fosse stato lunedì «non avrei lavorato comunque», dice. Cristina invece domenica sarà al suo posto. Addetta alla vendita trilingue, in merito alla decisione di tenere i negozi aperti il giorno della festa dei lavoratori, ha scritto alle istituzioni. Non alla Gelmini, questa volta, ma al sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Perché «quello del commercio – scrive – è il settore dove la vendita è lo scopo, il cliente è la preda, il dipendente è lo strumento. E lo strumento deve essere sempre disponibile. Io l’ho accettato, consapevole di questi sacrifici, per necessità. Non ho mai detto nulla e mai mi sono lamentata. Fino ad oggi». Liberalizzare il 1° maggio per le Cristina d’Italia non significa «favorire quel lavoratore che vuole lavorare», come ritiene il presidente della Confcommercio capitolina Cesare Pambianchi. «Significa invece favorire il datore di lavoro che fa lavorare il dipendente, quasi sempre afflitto da precarietà cronica». Che poi sia laureato o no, cambia? (2 – continua)