Giovedì 28 aprile sono state sganciate le prime bombe da aerei italiani in Libia. Sono 12.248 le persone uccise dallo scoppio di mine o per bombardamenti aerei, 24.508 i caduti in battaglia, 14.883 mutilati o invalidi di guerra, 5.901 i prigionieri impiccati o imprigionati senza un giusto processo, 36.352 le persone rinchiuse in campi di concentramento, 31.175 le persone che hanno cercato rifugio nei paesi vicini. Non si tratta della macabra contabilità della guerra civile che sta sconvolgendo oggi la Libia, ma dei dati ufficiali pubblicati dal «Centro di studi e ricerche sulla lotta di resistenza “Jahad” libica contro l’invasore italiano» di Tripoli nell’ottobre 1989 ed elaborati su un campione significativo di famiglie libiche per l’intero arco temporale delle guerre coloniali dal 1911 al 1932 (la guerra italo-turca dal 1911 al 1912 e poi quella contro la resistenza araba).
Si è discusso molto sui numeri e sull’accuratezza delle indagini svolte, ma è fuor di dubbio che furono migliaia le vittime del colonialismo italiano che non si fece scrupoli di ricorrere a fucilazioni e impiccagioni sommarie, di impiegare contro il nemico armi chimiche (gas asfissianti come l’iprite) e di mettere in atto una vera e propria deportazione di massa contro la popolazione civile della Cirenaica dove la lotta fu più cruenta.
La Libia, un tempo colonia italiana, ha chiesto ripetutamente dopo l’indipendenza il risarcimento e le scuse per i crimini e i danni subiti dal nostro colonialismo. Mettendo fra parentesi il fascismo e riducendolo così a un incidente di percorso lungo una narrazione complessivamente positiva della nostra storia nazionale, la nuova Italia repubblicana pensò di chiudere anche la partita con il passato coloniale semplicemente attribuendone tutte le colpe al fascismo e rimuovendolo dalla storia nazionale. Nel 1956 la firma del Trattato che concedeva alla Libia circa 5 miliardi di lire quale «contributo per la ricostruzione del paese» non faceva infatti nessun accenno esplicito al colonialismo. Fu Gheddafi a ricordarci ogni volta che si presentò l’occasione che quella partita non era affatto chiusa.
È stato Silvio Berlusconi a riuscire dove altri suoi predecessori avevano fallito, siglando a Bengasi il 30 agosto 2008 lo storico «Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista» che insieme alle scuse per le colpe coloniali pronunciate da Berlusconi sembrò chiudere davvero un’epoca e aprire a una partnership strategica tra Italia e Libia. Per chi come me si trovava in quelle settimane a Tripoli la sensazione fu che i libici finalmente si sentirono di poter manifestare senza più complessi quella simpatia e amicizia che li lega agli italiani proprio in virtù di una storia comune, anche se per tanti versi penosa. Le prime bombe che il governo italiano ha fatto sganciare in Libia rompono quel patto e promessa di amicizia. D’altra parte era stato La Russa a dichiarare dal febbraio scorso il Trattato virtualmente sospeso e a dire fin da allora che l’accordo internazionale non avrebbe impedito all’Italia di usare la forza in Libia.
Al di là degli schieramenti interni al governo e al Parlamento italiano, al di là degli opposti fronti che si stanno sanguinosamente scontrando in Libia, l’Italia non può bombardare la sua ex colonia proprio per quella “coerenza” che è stata invocata, equivocando, dal capo del governo. Se l’Italia fosse davvero «coerente con gli impegni presi» prima di tutto dovrebbe essere rispettare l’impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza» sancito espressamente all’art. 3 del Trattato sottoscritto nel 2008. La «coerenza» va perseguita prima di tutto con la propria storia e allora non si può accettare che l’Italia torni a bombardare dopo i massacri perpetrati dal colonialismo in Libia.
La verità è purtroppo che un tale tipo di «coerenza» non è neppure stato oggetto di discussione nelle diverse sedi istituzionale né tanto meno nelle piazze italiane (salvo quale sporadica eccezione). La verità è che quella storia con la quale ci dovremmo interrogare è stata oggetto di tanti studi accurati, seri e rigorosi, ma ancora il suo senso non si è riversato in un comune sentire degli italiani: forse una parte della colpa è proprio di noi storici che non siamo riusciti a fare uscire in modo adeguato quella storia dai libri e dall’accademia.
*Docente in Storia dell’Africa, Università di Pavia