Data di prima pubblicazione: 21 aprile 2011
Il federalismo sta facendo nascere un po’ ovunque una gran voglia di nuove regioni. E se la Lega Nord appoggia al settentrione il distacco della Romagna dall’Emilia e non disdegna la creazione della Lunezia, è al Mezzogiorno che il fenomeno fiorisce. Si propone la nascita del Salento Regione e del Principato di Salerno (a farlo è Edmondo Cirielli, onorevole Pdl famoso per una legge salvapremier), della Grande Lucania, della Marca Adriatica, della Silenia Terranuova e del Sannio (a cui si oppongono il progetto del Molisannio e dei sostenitori della Moldaunia…). Spesso è l’occasione per far parlare di sé sui giornali, in altri casi i promotori sembrano spinti dalla speranza di incrementare il numero di enti e di poltrone.
Qualcuno ha già bollato il fenomeno come effetto collaterale del dibattito sul federalismo fiscale. Pur di prevenire la riduzione di trasferimenti dal governo centrale ai comuni, prevista nella riforma ferma in Parlamento, amministratori e politici locali si starebbero ingegnando per dare vita a nuove regioni, capaci di intercettare il grosso dei finanziamenti. Si spiegherebbe così il fiorire di nomi fantasiosi che da qualche tempo affollano il dibattito in quasi ogni provincia della penisola, dalla Regione Salento alla Grande Lucania, passando per il Molisannio e per il Sannio, proposto dalla Lega Sannita, fino ad arrivare a una Regione Romagna privata dell’appendice emiliana.
In realtà l’attitudine a inventare nuove regioni non è recente e tutta la seconda metà del secolo scorso è stata caratterizzata dalla ricerca della mitica XXI regione della Repubblica, annunciata come una sorta di terra promessa. Il fenomeno tuttavia è esploso negli ultimi anni. Uno degli ultimi arrivati, in ordine di tempo, è il Principato di Salerno, nuova entità territoriale che coinciderebbe con l’attuale provincia salernitana. Il suo più acceso e illustre sostenitore è il presidente della provincia Edmondo Cirielli, noto per una legge salva-premier che porta il suo nome. «Per ragioni storiche, geografiche, culturali ed economiche, la popolazione salernitana è diversa dalla napoletana», ribadisce a ogni occasione utile Cirielli, che nella propria battaglia è riuscito a trovare un numero consistente di adepti. A deliberare a favore della proposta di istituzione della nuova regione sono stati, infatti, finora, 75 comuni, corrispondenti a oltre 500mila persone, ossia ben più di quel terzo di popolazione richiesto dall’articolo 132 della Costituzione perché la proposta possa essere sottoposta a referendum. Tanto che oggi Cirielli si sente già autorizzato a parlare da presidente di regione. Come di recente, quando gli è stata paventata l’ipotesi di una centrale nucleare nella Valle del Sele: «La regione del principato di Salerno non darà mai il consenso», ha risposto.
Peccato che non proprio tutti siano pronti a seguirlo. Più a sud, sempre nel salernitano, un gruppo di volenterosi lavora alacremente alla creazione della Grande Lucania che punta ad aggregare il Cilento e il Vallo di Diano alla Basilicata. Qualcun altro, invece, sempre in Campania, pensa a una nuova regione priva della «zavorra» di Napoli e Caserta, e limitata alle province di Avellino, Benevento e Salerno, da chiamare Silenia Terranuova. E per altri ancora la soluzione sta nel mettere assieme la provincia di Benevento con il Molise, per dar vita al Molisannio.
«Si tratta di fenomeni privi di radici storiche, che nascono semplicemente dalla volontà di aggiungere nuovi enti in un Paese già pieno di enti di ogni sorta, dalle province alle comunità montane», afferma Pino Aprile, che con il suo bestseller Terroni – incentrato sulle vicende che hanno accompagnato l’unità d’Italia al Sud – è diventato simbolo di un nuovo meridionalismo. «Queste piccole patrie – afferma Aprile – nascono dalla falsa convinzione che sia più facile amministrare un territorio piccolo rispetto a uno esteso. E soprattutto sono funzionali a qualcuno per disegnarsi il proprio potentato locale, a chi non è in grado di esercitare il proprio potere nel quadro delle strutture già esistenti. Il fenomeno esplode adesso perché siamo in un momento in cui il senso della comunità – anche nazionale – è affievolito, e qualcuno se ne approfitta per inventarne di nuove».
Qualche esempio di micro-secessionismo esiste anche al Nord. Basti pensare alla vecchia idea di una regione Lunezia, che dovrebbe unire le province di Massa e Carrara, Spezia, Parma, Piacenza, Reggio Emilia e Mantova; alla Regione Insubria, che comprenderebbe le province di Varese, Lecco, Como, Sondrio e Milano, o alla più recente proposta di Regione Romagna, costituita dalle province di Rimini, Cesena-Forlì e Ravenna, staccate da Bologna e dall’Emilia.
Ma il grosso del fenomeno è concentrato al Sud. Come la Campania, anche la Puglia è vittima di spinte centrifughe. Al progetto di Regione Salento, con le province di Lecce, Taranto e Brindisi, risponde Foggia che sta pensando seriamente di unirsi (ancora una volta) al Molise, per creare la Moldaunia. E progetti di divisione circolano anche in Calabria, a partire dal mai risolto conflitto campanilistico tra Cosenza, Catanzaro e Reggio.
In molti casi, la minaccia di creare una nuova regione è semplicemente un ottimo strumento per rivendicare spazio e attenzione sui media, e sono in tanti a ricorrervi quando si tratta di far avvertire il proprio peso sul tavolo della trattativa politica. Un esempio è quello della deputata berlusconiana di Benevento Nunzia De Girolamo che, meno di un anno fa, nel pieno delle trattative per la formazione della nuova giunta regionale, arrivò a minacciare la secessione. «Il Sannio non ha assessori regionali eppure è chiamato spesso ad “aiutare” la Regione con discariche e supercarceri. Se non avremo un assessore, siamo pronti ad abbandonare la Campania», tuonò la rappresentante del Pdl rivolta al presidente Stefano Caldoro e agli altri alleati di centrodestra. Minaccia analoga («via dalla Campania») è stata formulata dai sindaci dell’Alta Irpinia nel 2006 e nel 2008, ossia ogni volta che i territori di loro competenza sono stati tirati in ballo per sistemare una nuova discarica regionale.
Per capire quanto sta avvenendo, tuttavia, non va dimenticato nemmeno il ruolo della Lega Nord che, a partire dagli anni Ottanta, ha innovato il linguaggio della politica italiana. I paladini dei secessionismi meridionali ripropongono, in scala ridotta, la storica lotta leghista a «Roma ladrona». In questo caso, l’obiettivo degli attacchi non è la capitale, ma i rispettivi capoluoghi di regione, accusati di drenare ogni risorsa, ignorando le periferie. «Siamo stanchi di vedere tutti i finanziamenti destinati a Napoli», dicono i fautori del Principato di Salerno. «In Cilento arrivano solo le briciole», gli fanno eco i promotori del comitato Grande Lucania. Dal canto loro, salentini e foggiani se la prendono con Bari matrigna. «In Puglia siamo vittime del Bari-centrismo, il 70 per cento dei soldi pubblici viene gestito da Bari e provincia e solo il 30 per cento arriva nelle altre cinque Province», spiega il presidente del comitato Regione Salento Paolo Pagliaro. Si passa da una costa all’altra della penisola ma le accuse non cambiano: macrocefalia del capoluogo, abbandono delle province più piccole e via dicendo. E identica è la soluzione, ossia la secessione su base locale. Perché, stando a questa linea di pensiero, i territori negletti, liberati dall’intralcio delle metropoli meridionali, otterrebbero finalmente tutti i vantaggi finora mancati in termini di sviluppo e di reddito, un po’ come il Nord Italia senza la palla al piede del Mezzogiorno.
«Non vi è dubbio che esista la tendenza a scimmiottare la Lega – dice Aprile – E non escludo che lo stesso partito di Bossi guardi con favore e indirettamente sostenga questo tipo di operazioni. Se non altro per poter dire che le istanze al decentramento hanno carattere nazionale».
Ufficialmente la Lega sostiene i progetti micro-secessionisti del Nord, come quelli della Lunezia e della Romagna. Ma il partito e i suoi organi di comunicazione prestano attenzione e riguardo anche ai movimenti in atto ben al di là della linea del Po. Non è un caso che, lo scorso dicembre, la Lega abbia scelto proprio il Salento per sbarcare al Sud con la sua Radio Padania. Come ha avuto modo di spiegare il direttore dell’emittente (ed europarlamentare) Matteo Salvini la scelta è dipesa dalla volontà di far conoscere meglio le idee del partito, ma anche dalla simpatia che i padani hanno per i secessionisti salentini.
Ma davvero la creazione di nuovi regioni porterebbe benefici ai suoi cittadini? Di sicuro, la creazione di nuovi enti (con la relativa moltiplicazione di consiglieri regionali e sedi istituzionali) farebbe lievitare i costi dell’amministrazione pubblica. E per nulla scontato è il presunto maggiore volume di trasferimenti provenienti dal governo centrale e dall’Unione europea, di cui parlano costantemente i promotori delle nuove regioni per dare forza alle proprie idee. Le regioni più grandi per popolazione e per territorio sono, infatti, avvantaggiate quando si tratta di dialogare con Roma o con Bruxelles, oppure quando è necessario sostenere le proprie ragioni in settori quali le infrastrutture, l’energia o la sanità. Tanto e vero che alcune regioni italiane medie e piccole si stanno muovendo nella direzione opposta, cioè stanno pensando a unirsi per ottenere maggiore visibilità e finanziamenti. È il caso di Marche, Abruzzo e Molise, dove da tempo si parla di creare una Marca adriatica, più forte in sede di trattativa rispetto alle attuali tre regioni esistenti.
Da non sottovalutare, infine, sono i rischi che i micro-secessionismi comportano anche dal punto di vista prettamente politico. «Anche se possono apparire velleitari – afferma Aprile – questi movimenti sono pericolosi, perché per dividersi, per dar vita a un nuovo territorio, è necessario esaltare le differenze e istituzionalizzarle. E questo processo è destinato ad auto-alimentarsi. Insomma, si sa come si inizia ma non si sa dove si va a finire».