La Libia è un paese arabo, musulmano, mediterraneo, ma sopratutto africano. L’Unione africana (Ua) è però la grande assente nei diversi tentativi che in questi giorni si stanno tentando nella speranza di trovare una possibile via di uscita alla crisi internazionale innescata dalla guerra civile contro Gheddafi. Quel che accade in Libia continua così a essere una crisi gestita pressoché in esclusiva dal Nord che una volta in più ha dimostrato di non saper ricorrere ad altri strumenti se non quelli militari per tentare di porre rimedio alle crisi del Sud.
Il 20 marzo scorso, il giorno immediatamente successivo all’attacco, si è tenuto un vertice straordinario del Consiglio di pace e sicurezza dell’Ua a Nouakchott con l’intento di trovare «una soluzione africana per la situazione in Nord Africa» (per citare il presidente della Mauritania Mohamed Ould Abdel Aziz). La posizione adottata dai delegati di Mauritania, Sud Africa, Congo, Mali e Uganda per conto dell’intera Ua ha sostenuto la «necessità di riforme politiche per eliminare le cause della attuale crisi» in Libia (in altre parole Gheddafi deve lasciare), ma ha anche chiesto «un immediato stop» ai bombardamenti, insistendo sulla «moderazione» che deve guidare l’azione della comunità internazionale per evitare «serie conseguenze umanitarie» .
La stessa posizione è stata ribadita il 3 aprile scorso dall’inviato speciale dell’Ua, Jean Ping, che è volato a Londra e Bruxelles per incontrare i governanti occidentali e i vertici della Nato: la richiesta è per un immediato cessate il fuoco e una via politica per «eliminare le cause del conflitto e legittimare le aspirazioni del popolo libico alla democrazia». L’Ua si aggiunge alla lunga lista di coloro che hanno espresso apertamente la propria contrarietà ai bombardamenti: Cina, Russia, Turchia, Germania e, dopo un primo incoraggiamento all’azione, Lega araba.
Resta tuttavia l’ambiguità di fondo per una mancata e chiara condanna del dittatore: si auspica l’uscita di scena di Gheddafi senza però nominarlo.
Nell’assetto delle relazioni internazionali post-guerra fredda la politica estera africana la fanno le potenze regionali. L’Ua ha innovato in senso multilaterale l’istanza panafricana dell’Oua (l’Organizzazione dell’unità africana fondata ad Addis Abeba nel lontano 1963 sull’onda delle indipendenze africane del 1960), sviluppando un’architettura istituzionale su base regionale e attribuendo maggiori poteri agli stati membri più autorevoli. Di conseguenza l’azione politica dell’Ua funziona là dove c’è una leadership regionale consolidata e rischia invece di risultare inefficace dove manca una tale condizione.
Questa è la prima ragione per spiegare come mai in Libia l’Ua ha rinunciato a esercitare in modo forte e pieno il suo diritto di intervento a protezione dei diritti umani e per la sicurezza collettiva. Dopo aver abbandonato una politica fortemente panaraba, Gheddafi ha guadagnato un grande credito politico, anche personale, per essere stato l’artefice della storica riforma che nel 2002 ha portato alla creazione dell’UA con l’intento di rilanciare sul modello dell’Ue l’integrazione economica e politica del continente. In Africa settentrionale la leadership regionale era dunque quella libica che è stata azzerata dalla guerra: ecco perché l’Ua ha tante difficoltà a intervenire in Libia, mentre per fare un esempio al contrario la leadership della Nigeria in Africa occidentale (per il tramite della Economic Community Of West African States) ha favorito una chiara presa di posizione dell’Ua in Côte d’Ivoire, dove è in corso una guerra civile che sta passando sotto silenzio tra il caso libico e la contaminazione nucleare in Giappone.
Il no dell’Ua alle bombe in Libia si spiega poi per i legami forti, in alcuni casi fortissimi, che vincolano molti autocrati africani a Gheddafi, con il quale condividono la medesima visione dittatoriale del potere e dello Stato. Gheddafi non ha solo destinato una parte consistente della rendita petrolifera in investimenti diretti o cooperazione con i paesi sub-sahariani, ma è stato anche una fonte di legittimazione politica per molti leaders africani in modo diretto o attraverso la stessa Ua. Ecco allora l’Uganda di Yoweri Museveni che ha denunciato «i piani di guerra occidentali» in Libia, dichiarandosi contro l’intervento militare, nonostante sia il principale referente degli Stati Uniti nell’Africa orientale e partecipi come paese leader alla forza di pace dell’Ua in Somalia (African Union Mission in Somalia).
Il contagio rivoluzionario partito dalla Tunisia ha per il momento dimostrato di correre lungo il canale dell’appartenenza arabo-islamica. È possibile che vengano prima o poi coinvolti paesi che nel corso dei secoli hanno subito un processo più o meno importante di arabizzazione (Mauritania e Sudan, ma anche Eritrea e Somalia), per il momento però l’Africa resta per Gheddafi un retroterra importantissimo in termini di risorse politiche, economiche e militari. Lo stesso embargo alle armi messo in atto dal blocco navale nel Mediterraneo rischia di essere facilmente aggirato attraversando il Sahara e rifornendosi direttamente in Sudan o in altri paesi africani compiacenti.
*Università di Pavia