L’interruzione della produzione e del trasporto di idrocarburi da un paese strategico come la Libia è costata all’Eni un “underperform” del solo 3 % rispetto al comparto europeo Oil & Gas dall’esplosione della crisi a Tripoli. Questo si deve a diversi fattori. Prima di tutto, i termini contrattuali con la Libia non sono dei più vantaggiosi. Per comprenderlo, non serve Wikilieaks, per quanto alcuni documenti nei abbiano parlato: la questione è legata al famigerato schema commerciale “EPSA”, giunto alla quarta versione, sempre molto parco in merito agli utili destinati alle compagnie.
Un ulteriore “vantaggio” della questione libica è dovuto all’altro versante della situazione di approvvigionamento dell’Eni: la Russia. La diminuzione del consumo in Europa e in Italia aveva spinto a comprare meno gas da Mosca, ma i contratti “take or pay” imponevano all’azienda italiana il pagamento di onerose compensazioni per mancato acquisto. Interrompendo il flusso dal gasdotto Greenstream, che collega la Libia all’Italia, gli impegni con la Russia sono tornati improvvisamente utili. Così, il conflitto libico ha esercitato un effetto ambivalente sulla valutazione di Eni: da una parte, c’è stato l’aspetto negativo della riduzione della produzione; ma dall’altra, l’interruzione di Greenstream ha giovato al bilancio.
Nel giro di nomine tra Ministero dell’economia e Presidenza del consiglio è stato scelto come presidente Giuseppe Recchi, finora alla guida di General Electric per il Sud Europa. Lo attendono sfide importanti. Nel 2009 Business Week definiva la crescita di Eni come “l’improbabile ascesa di un una potenza petrolifera”, commentando la strategia basata sulle acquisizioni per accrescere il proprio portafoglio di riserve. È vero: gli acquisti hanno fatto molto per aumentare i barili custoditi dal cane a sei zampe; è stata questa però la strada scelta da molte altre aziende, in un cambiamento strategico che sta investendo tutto il settore delle grandi compagnie.
Gli obiettivi di crescita dell’azienda di San Donato sono ora estremamente ambiziosi, e non possono prescindere da un ritorno alla “crescita organica”: esplorazione, scoperte e sviluppo tornano ad acquistare centralità. Si prevede infatti che da qui al 2014 l’aumento della produzione sia del 3 % l’anno (compounded rate), grazie a oltre 53 miliardi di investimenti. Per l’ad Paolo Scaroni, “l’80 % della produzione che entrerà in linea nel periodo dipenderà da progetti grandi, in particolare in Venezuela, Russia, dall’Artico e dall’Angola”.
Ciò detto, l’incognita libica resta. Di positivo c’è che Eni ha competenze radicate nel paese (oltre a un gasdotto che collega le riserve di gas con l’Europa…). Di più preoccupante c’è il fatto che nessuno degli scenari possibili sul proseguo del conflitto appare promettente. Se Gheddafi restasse al suo posto, bisognerà riconciliarsi in qualche modo, ma sembra difficile. Se Gheddafi viene rimosso, o se la Libia si spacca, le potenze straniere che hanno aiutato nell’intervento aereonavale pretenderanno qualcosa, che in genere ha la forma di barili pieni di petrolio. Si vedrà.
Anche per Enel è arrivata una nuova nomina: il commercialista e consulente Paolo Andrea Colombo. Sarà alle prese con un’altra situazione di transizione, dato che l’Enel dall’acquisizione di Endesa è diventata l’azienda elettrica più indebitata d’Europa. L’utile 2010 è peggiorato del 21 % rispetto all’anno prima, a 4,4 miliardi di euro. La vendita di alcuni asset è servita a risollevare la situazione del cash flow, ma molto è ancora da fare. Così come per Eni, anche per Enel il piano di investimenti è molto ambizioso: si tratta di 31 miliardi di euro nei prossimi cinque anni. La grande transizione che però riguarda entrambe le aziende statali riguarda la concentrazione geografica: “Go East” è il comandamento che guida Eni ed Enel.
Enel, da parte sua, ha dimostrato interesse per i progetti di privatizzazione degli asset elettrici ucraini; è ancora aperta la partita per le interconnessioni con il Montenegro (per quanto sia più di competenza di Terna); prevede di investire in Russia un miliardo di euro nel 2011-2015. Non da meno è Eni: entro maggio dovrebbe partire un grande progetto per la commercializzazione di prodotti raffinati nell’Asia-Pacifico; inoltre, con la Cina sono stati avviati contatti nel settore del gas da scisto, frontiera del “era d’oro del gas” (dal titolo di un report dell’International Energy Agency, in uscita a giugno). Soprattutto, le rivolte arabe hanno ridato smalto alle speranze di sviluppo di nuovi progetti di interconnessione per il gas con la Russia. Anche l’azienda tedesca Wintershall, partecipata dalla BASF, sta entrando nel consorzio per lo sviluppo dell’“italo-russo” South Stream, il gasdotto che collegherà le riserve del Caspio all’Europa, tagliando per il Mar Nero. Saipem è anche presente in Nord Stream, altro gasdotto che collegherà la Russia alla Germania.
Quest’alleanza tedesco-italiana non è una novità nel settore energetico: grazie a essa, gli americani hanno accettato la costruzione dell’oleodotto Druzhba negli anni Sessanta, e del gasdotto Urengoi negli anni Ottanta. Non è un caso che Recchi, ex GE, sia stato scelto anche per il buon collegamento con Washington. La partita del gas sarà fondamentale, soprattutto se si rinuncerà al nucleare. Le tecnologie rinnovabili attuali non sono in grado di sostituire l’atomo, per il quale l’alternativa più diretta è rappresentata dalle fonti fossili. Se lasciassimo stare il carbone per ragioni di emissioni, la produzione elettrica basata sul metano è la soluzione migliore. Eni ed Enel, al contrario di come sarebbe successo col nucleare, non dovranno qui importare tecnologia e competenze dall’estero, ma potranno fare tutto quel che c’è da fare – e non è poco – “in casa”.
*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e autore di «La guerra del clima – Geopolitica delle energie rinnovabili»