Fotovoltaico, tanta spesa per poca elettricità

Fotovoltaico, tanta spesa per poca elettricità

Il report curato dall’Energy & Strategy Group del Politecnico di Milano, presentato il 7 aprile 2011, presenta una situazione incoraggiante per la filiera fotovoltaica italiana. Ci sono più imprese del nostro Paese presenti nei settori a monte nella catena produttiva, attive nella produzione di celle e wafer al silicio, e non solo nell’installazione. In totale, circa 18.500 persone lavorano nel settore, per una spesa che, a regime, sarà di 3,5-4 euro al mese per ogni bolletta di una famiglia media. Dovremmo essere contenti, insomma: l’installazione genera occupazione, e costa relativamente poco.

Il problema di questa stima dei 3,5-4 euro, però, è che si riferisce solamente al “conto energia” attuale. Il piano di incentivazione in vigore dovrebbe infatti coprire 3 gigawatt aggiuntivi di installato, per un esborso totale da qui al 2028 che potrebbe oscillare tra i 38 e i 48 miliardi di euro. Il limite dei 3 gigawatt era stato definito in rispondenza all’obiettivo generale italiano di arrivare a 8 gigawatt di fotovoltaico installato in totale al 2020. Con le attuali dinamiche di settore, però, questo traguardo potrebbe essere raggiunto già nel 2012, con molti anni di anticipo. Visto che le imprese italiane sono specializzate nell’installazione, e perlopiù quasi esclusivamente in Italia, i loro bilanci possono reggersi in piedi solo se lo Stato incentiva più gigawatt, di modo che il settore possa “espandersi” e gli operatori possano continuare a montare pannelli. Da qui, ci sono pressioni perché il target sia alzato.

È vero: 3,5-4 euro al mese (o 42-48 euro l’anno) non fanno paura. Ma che succederebbe se gli obiettivi d’installazione totale venissero incrementati, e la spesa dovesse aumentare? Per iniziare, sarebbe utile introdurre nel discorso sul fotovoltaico italiano un elemento in più: si parla spesso di “quanto si spende”, e si ricorda poco “cosa si compra”. Nel 2010 gli italiani hanno comprato 1.600 gigawattora di produzione elettrica dal fotovoltaico, pagandola 800 milioni di euro, pari a circa 500.000 euro a gigawattora di incentivi. In confronto, la Germania ha pagato 400.000 euro a gigawattora (come abbiamo già avuto modo di spiegare).

Stiamo quindi pagando molto, per poca elettricità. A fronte di questo, si tende a replicare che il fotovoltaico “crea occupazione”. Si potrebbero citare allora i 18.500 occupati stimati dal Politecnico. Ci potremmo però domandare se si tratta di un’occupazione che sia utile per il nostro Paese. Nelle economie industrializzate, normalmente, circa il 5% delle persone lavora nel settore energetico, e circa il 95% in settori che consumano energia. Bene: sarebbe opportuno che le proporzioni rimanessero tali, perché ogni aumento di un occupato nel settore energetico rappresenta un aggravio di costi per tutti gli altri settori. È opportuno e utile lo sviluppo di una filiera, e ben vengano i 18.500 addetti stimati dal Politecnico. Ho dubbi sul fatto che questa specializzazione occupazionale debba crescere senza limiti.

La vera sfida per l’industria e la politica italiana è quella di riequilibrare la filiera industriale: circa il 65% del fatturato nazionale nel fotovoltaico si colloca nell’installazione e distribuzione (in cui il margine è un mero 14%), mentre nella produzione di silicio e wafer il fatturato rappresenta il 12% del totale (con il margine più alto, del 22%). Ciò significa che siamo ancora troppo dipendenti dall’estero. Perpetuare gli incentivi senza una vera strategia di sviluppo industriale sarebbe una sconfitta senza scuse per la politica italiana.

E non è vero, come dicono alcuni, che gli incentivi «non sono una tassa», visto che sono pagati in bolletta dai consumatori di energia. Le tasse possono essere dirette e indirette; in questo caso non si tratta di un’imposta sul reddito, ma di una decisione dello Stato che stabilisce prezzi “artificiali” per un bene (in questo caso l’elettricità) e ne impone il pagamento ai consumatori.

Se ci si specializza solo nell’installazione, si crea un’occupazione “artificiale” in base a prezzi “imposti”. Da questo punto di vista, il report del Politecnico è sorprendente: a pagina 54 si ricorda che «a fronte delle sopraccitate uscite per lo Stato, il mercato fotovoltaico italiano genera annualmente delle entrate – che nel 2009 erano state stimate in circa il 65% delle uscite totali – legate a imposte dirette, Ires e Irap» oltre a Ici, Iva e ridotti costi ecologici a causa della minor CO2 emessa nell’atmosfera. Insomma, cari italiani, dovreste essere contenti: vi viene imposto un prezzo caro per dell’elettricità, che dovete pagare senza poter scegliere. Per il resto, questi soldi non vengono tutti impiegati per stimolare il settore, ma ben il 65% torna nelle casse dello Stato (si veda pagina 41 del report del 2009).

Se ancora ci stiamo chiedendo perché in Italia non è stata sviluppata una filiera equilibrata, parte della risposta sta proprio in questo aspetto del fardello fiscale. Il discorso sul fotovoltaico italiano è una rappresentazione ideale dell’impasse culturale che blocca la nostra economia. Si impongono incentivi per una tecnologia ancora acerba, in base a uno stratagemma (quello degli incentivi) molto poco trasparente, e in buona fede si ritiene che «non sia una tassa» e che «crei occupazione». Se questa fosse la realtà, perché non adottare la medesima soluzione per tanti altri beni? Perché non imporre incentivi per la produzione di automobili, computer, mobili e arredi, scarpe, penne e matite, utensili da cucina? Sono tutte cose di cui abbiamo bisogno: basterebbe aumentarne artificialmente i prezzi. Far pagare penne e matite 30 euro creerebbe un aumento incredibile nell’occupazione del settore.

Gli incentivi sono una soluzione troppo semplice per un problema estremamente complesso. Gli incentivi sono solo una parte marginale della politica industriale. Fa ben sperare quanto citato dal report del Politecnico, secondo cui alcune realtà aziendali hanno iniziato ad affacciarsi anche nei settori della produzione di silicio e wafer. Preoccupa che la crescita italiana nel settore della produzione di celle sia più lenta rispetto al trend mondiale.
Tutto questo, non ci stancheremo mai di ripetere, non giustifica il fatto che il legislatore dovrebbe essere più chiaro nella comunicazione delle modifiche al conto energia. Lo stallo degli incentivi nono colpisce solo l’installazione, ma strozza sul nascere anche la nostra preziosa, piccola e costosa filiera industriale.

*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e autore di «La guerra del clima – Geopolitica delle energie rinnovabili»

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