Ci sono stati anni ormai lontani – anzi, sembrano passati secoli – in cui la Repubblica islamica dell’Iran sembrava cambiare dall’interno, facendo fiorire le speranze che una vera democrazia potesse finalmente attecchire, pur mantenendo le forme istituzionali uscite dalla rivoluzione popolare del 1979. Sono stati gli anni del presidente riformista Mohammad Khatami (1997-2005): soprattutto il suo primo mandato aveva illuso iraniani, analisti internazionali e tutti quelli che amano questo meraviglioso, complesso paese.
Poi la disillusione e anzi l’ascesa di una nuova generazione di ultra-radicali sostenuti dai pasdaran e impersonati dal presidente populista Mahmoud Ahmadinejad. Dalla sua elezione – nel 2005 – l’Iran ha vissuto una trasformazione in peggio, verso un nuovo totalitarismo legato alle forze militari, molto più intollerante e violento del passato. I giornali non allineati definitivamente chiusi, le prigioni riempite di intellettuali, studenti, attivisti per i diritti delle donne: insomma, sull’Iran era tornata a calare una tetra cappa di oppressione. Poi, nel 2009, i brogli elettorali – mai così massicci e determinanti – che hanno riconfermato Ahmadinejad, ma hanno provocato le proteste e le reazioni del movimento riformista, radunatosi attorno ai candidati Mehdi Karrubi e Mohsen Mousavi. Entrambi appartenenti all’élite di potere, questi due riformisti moderati hanno guidato per mesi le proteste di chi chiedeva “dov’è finito il mio voto?”.
Che la brutale repressione di queste manifestazioni riuscisse ad aver ragione dei manifestanti non ha certo sorpreso. Del resto, l’Onda Verde – come è stato battezzato il movimento riformista – differiva dai tanti movimenti di protesta o di rivolta che si sono avuti in Medio Oriente. Va infatti ricordato come l’Iran abbia una società civile fra le più mature e avanzate della regione e che quindi sia meno incline alla violenza. Di fatto, i riformisti chiedevano il rispetto della costituzione e delle procedure formali, contro un potere che le violava. I loro leader hanno sempre agito all’interno della legalità, facendo da freno alle spinte più radicali riformiste. Per storia personale e per carattere, il vecchio religioso Karrubi e il gentile artista – un poco démodé – Mousavi non erano esattamente degli agitatori sociali, nonostante la stampa ultraradicale cercasse di dipingerli come dei sovversivi.
Era abbastanza ovvio che i pasdaran avrebbero piegato i manifestanti, con la violenza, gli arresti, le torture, le minacce, gli stupri in carcere. Meno ovvio, invece, che il Leader della rivoluzione (il rahbar), l’ayatollah ‘Ali Khamenei, si appiattisse a tal punto sulla posizione di Ahmadinejad e delle milizie para-militari. Un cedimento che ha suscitato lo scontento dei conservatori tradizionali e soprattutto del clero militante – i “politici con il turbante”, come li chiamano in Iran – che si vede sempre più estromesso dai militari e dagli ultraradicali. Tuttavia, la repressione di ogni diversità politica ha snaturato il sistema – fino ad allora capace di “ospitare” idee politiche diverse – e sta spingendo i riformisti a forme di mobilitazione più fluide e meno controllabili da un regime rigido e sovraesposto a livello internazionale.
Insomma, fra il 2009 e il 2010 la maschera del regime è infine caduta, e la storia, nell’arco esatto di trent’anni ha compiuto un interno giro: un potere nato sulle istanze di libertà e sul sangue delle repressioni dello shah, si è tramutato nel carceriere del suo popolo. E la “particolarità politica iraniana” è sempre meno visibile fra le tante dittature del Medio Oriente.