La Francia vince anche la partita del calcio

La Francia vince anche la partita del calcio

Dopo una gestazione di nove mesi, da quando cioè i Bleus sono usciti al primo turno del mondiale sudafricano, ieri mattina, sotto la Torre Eiffel, ha preso forma la nuova federazione calcistica francese (France football federation). Bruciano ancora sulla pelle di Ribery e soci le ferite di un flop dagli ampi strascichi disciplinari al di fuori dal rettangolo verde. Basti ricordare il boicottaggio dell’allenamento dopo la sconfitta contro il Messico, per sostenere la punta Nicholas Anelka, reo di aver insultato l’allenatore Domenech e per questo esonerato dai Galletti. Un comportamento definito «inaccettabile» nientemeno che dal presidente Nicholas Sarkozy. Certo, il mondiale non era propriamente iniziato nel migliore dei modi, con la dubbia qualificazione contro l’Irlanda di Trapattoni grazie ad un goal «di mano» di Henry, tuttavia il colpo mortale alla grandeur d’Oltralpe inferto dai messicani prima (2-0), e dai padroni di casa poi (1-2) sembra aver dato i suoi frutti, portando ad una profondo ripensamento del movimento calcistico francese. 

Via libera dunque al nuovo statuto della Federcalcio francese, approvato ieri all’unanimità dopo gli Stati Generali della federazione, riunitisi lo scorso ottobre. I punti fondamentali riguardano la composizione del nuovo comitato esecutivo, che avrà dieci membri compreso il presidente (entrambi eletti a scrutinio di lista), e la composizione dei voti in assemblea, con la serie A che avrà il 37% (dal 25% precedente) delle quote, mentre alle leghe minori andrà il restante 63 per cento. Un’authority indipendente composta da 20 membri, inoltre, vigilerà sull’operato del presidente, ma la novità più rilevante riguarda il tetto minimo di 14 milioni di euro, ovvero il 2,5% dei diritti televisivi negoziati ogni anno dalla federazione, come contributo alle altre leghe, dalla serie B ai semi-professionisti. Sebbene qualsiasi osservazione sugli effetti della rivoluzione sia prematura, la possibilità di traslare una parte dei profitti milionari della serie A alle leghe meno patinate sembra andare nella direzione di uno sviluppo globale del pianeta calcio transalpino. Un esempio virtuoso per la nostra Fgic. 

Al di qua delle Alpi, nonostante gli ex campioni del mondo siano usciti dalla rassegna sudafricana in modo imbarazzante, una rottura con il passato non si è vista. Allenatore a parte. Il presidente federale, Giancarlo Abete – dirigente Figc dal lontano 1989, presidente dal 2007 al posto di Franco Carraro, uscito di scena dopo lo scandalo di calciopoli – è ancora al suo posto. Qualcosina è cambiato soltanto nella Lega A, dopo recente addio di Maurizio Beretta da presidente per approdare a UniCredit da capo della comunicazione. Al suo posto, c’è chi ha addirittura ipotizzato un clamoroso ritorno proprio di Carraro, che della Lega Calcio è stato già presidente dal 1966 al 1968, dal 1973 al 1976 e dal 1997 al 2001. Alla faccia del rinnovamento. 

Dal 2009, dopo la fine dell’era Matarrese, la Figc è divisa in quattro divisioni: la serie A, la B, la Lega pro e i dilettanti. Ogni federazione ha il proprio budget, e non vuole spartirlo con gli altri, nonostante sia obbligata a farlo per legge. La partita più complessa riguarda la suddivisione dei diritti tv, una torta da 850 milioni di euro l’anno, vera gallina dalle uova d’oro in un Paese dove allo stadio, per mille ragioni, si preferisce il divano o il bar sotto casa. In base alla Legge Melandri, che ha introdotto la mutualità nella ripartizione dei diritti televisivi, a Serie B e Lega Pro spetterebbe il 6% dei diritti tv, più un 4% stanziato per il rinnovamento degli impianti sportivi e per lo sviluppo dei settori giovanili. Peccato che, secondo quanto riferisce il presidente della Lega Pro, Mario Macalli, quel 10% non si sia mai visto. A ulteriore riprova della delicatezza del contendere, la scazzottata di tre giorni fra Aurelio De Laurentiis e Claudio Lotito, entrambi peraltro consiglieri della Lega A, sulla spartizione degli 810 milioni di diritti tv che spettano ai club maggiori, il 25% dei quali legato al cosiddetto «bacini d’utenza», ovvero la consistenza delle tifoserie. Per la definizione delle quali è stata indetta una gara tra 13 società demoscopiche, chiamate a presentare i progetti entro aprile: i soldi devono essere incassati prima della fine del campionato. 

Una situazione che rende quantomeno improbabile, da noi, una storia come quella di Fernand Duchassoy, attuale numero uno della federazione francese. Il quale, prima della nomina, lo scorso luglio, ricopriva lo stesso ruolo del nostro Macalli. Qualcuno potrebbe legittimamente obiettare che il fatturato della Ligue 1 è di molto inferiore alla nostra Serie A. Altrettanto vero è che, secondo i risultati di una recente ricerca condotta dalla società di revisione contabile PwC, il campionato francese sarebbe quello con i conti più equilibrati d’Europa. 

Ancora più rivoluzionario, nel segno dell’autonomia finanziaria, il lancio – lo scorso gennaio – della propria pay tv sul digitale terrestre. Il canale si chiama Cfoot ed è di proprietà della Lfp, la Lega Calcio transalpina, che ha deciso, non trovando offerte convincenti per la prossima stagione, di tenere i diritti televisivi per sé. Di un progetto simile se ne parlò anche in Italia, ma non vide mai la luce. Tantomeno l’idea, mutuata dalla federazione inglese, di vendere i propri diritti in Asia per fare cassa, fruttata la bellezza di 1,4 miliardi di sterline. Se in Francia cambia dunque il vento, i soloni del pallone italiano rimangono inchiodati alla seggiola, mentre si allarga il buco nel bilancio dell’ex campionato più bello del mondo.  

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